La ricerca economica, nel campo dell’istruzione, ha evidenziato un risultato che è rimasto robusto nel tempo: maggiori risorse (finanziarie e umane) non sono associate a migliori risultati – misurati attraverso apprendimenti degli studenti, tassi di successo negli studi, ecc. Le prime evidenze di questo tipo risalgono addirittura agli anni sessanta, e sono contenute nel famoso Coleman Report del 1966. Da allora, decine di studiosi si sono cimentati nell’analisi della relazione tra risorse e performance senza, di fatto, riuscire a dimostrare in modo consistente l’effettiva esistenza di tale relazione.
Questo risultato è stato invece criticato, attraverso l’arma del buon senso, da chi lavora nella scuola, soprattutto docenti: infatti, è evidente a costoro in primo luogo che maggiori risorse consentono non solo una più efficace attività ordinaria, ma anche sperimentazioni e innovazioni altrimenti impossibili, e che, secondariamente, tali sperimentazioni solitamente conducono a migliori risultati.
Come conciliare queste due visioni contrapposte?
Con riferimento al caso del sistema scolastico italiano, è indubbio che la relazione tra risorse investite, e risultati ottenuti dagli studenti, sia quantomeno scarsa. La spesa per studente, nel segmento della scuola primaria e secondaria, è pari o superiore rispetto alla media dei paesi dell’Europa a 19 (dati Ocse Education at a Glance 2008: 6.800 $ contro 6.050, e 6.800$ contro 6.000, rispettivamente), ma i risultati degli apprendimenti degli studenti, come rilevati dalle indagini Ocse-Pisa, TIMMS e PIRLS sono invece nettamente inferiori (un’analisi dei dati PISA è stata proposta dalla prof.ssa Ribolzi in questo stesso quotidiano il 9 settembre 2009).
Nonostante questa evidenza, nei giorni scorsi si è alzata la protesta delle scuole contro il piano del Ministro Gelmini volto alla riduzione del numero di docenti. In estrema sintesi, la protesta è argomentata sostenendo che la scuola italiana abbia bisogno di più risorse, non di una loro riduzione (ovviamente, vi è anche una parte di protesta “corporativa”, focalizzata sul mantenimento dei diritti degli attuali docenti, di ruolo e precari, ma in questo contesto non ce ne occuperemo).
Dal punto di vista della finanza pubblica, tuttavia, vi è una certezza: il contenimento della spesa pubblica nel settore può passare solo attraverso una riduzione del numero di docenti. Come descritto nel Rapporto 2009 sulla Finanza Pubblica in Italia (ed. Mulino, curato dai proff. Guerra e Zanardi), quasi il 97% della spesa nel settore scolastico è assorbito dal costo del lavoro (pp. 107-9). Probabilmente, la collettività sarebbe disposta a rinunciare al contenimento della spesa in questo settore così importante, se vi fosse evidenza della sua incidenza positiva sui risultati scolastici: ma in assenza di questa…
È forse giunto il momento di “scendere dalle barricate”, e spostare il focus della discussione politico-istituzionale dall’ammontare delle risorse, per discutere invece del loro reale utilizzo. A questo proposito, giova ricordare che mentre la relazione tra numero di docenti e performance è piuttosto debole, non altrettanto si può dire con riferimento alla loro qualità; e l’evidenza empirica mostra che insegnanti più motivati, meglio retribuiti e con profili di carriera più meritocratici, sono in grado di influenzare positivamente gli apprendimenti degli studenti. Da questa evidenza discendono alcune importanti conseguenze, che è utile richiamare nel contesto del dibattito attuale nel nostro Paese.
In primis, si dovrebbe puntare di più sulla qualità degli insegnanti, piuttosto che sul loro numero (il tema è stato colto in modo interessante in un articolo di Guerri su il Giornale, sabato 10 ottobre 2009). Dal mio punto di vista, non si tratta di rivedere per l’ennesima volta le modalità di reclutamento dei docenti, ma piuttosto di lasciare autonomia alle scuole nelle modalità di assunzione e di retribuzione, cercando di innescare un percorso virtuoso che porti le scuole a cercarsi docenti sempre migliori. Forse questa è l’unica strada per rilanciare la professione di docente, oggi afflitta da scarsa reputazione, profili di carriera e retributivi basati solamente sull’anzianità, assenza di incentivi finanziari, livelli salariali bassissimi.
In secondo luogo, le scuole dovrebbero avere maggiore autonomia nel determinare i propri programmi e le modalità di insegnamento. Una delle cause della maggior spesa nel settore, nel nostro Paese, è il numero di ore di attività didattica, molto più elevato che negli altri paesi europei (tra 1.000 e 1.100, scuola primaria e secondaria, contro una media Ocse di 800 e 970, rispettivamente – dati del Rapporto 2009 Finanza Pubblica Italiana, p.115). Probabilmente, in presenza di maggiore autonomia, alcune scuole potrebbero decidere organizzazioni didattiche meno onerose (in termini di tempo) ma ugualmente efficaci. Gli interventi centralistici in questa direzione (ad es. la reintroduzione del maestro unico) possono risultare molto meno convincenti, perché non possono per definizione tenere conto delle specificità delle singole scuole e dei loro territori di riferimento.
Infine, appare oramai irrinunciabile l’avvio di una sistematica attività di valutazione degli apprendimenti degli studenti su scala nazionale. Solo con dati aggiornati e sicuri su prove standardizzate è possibile tenere costantemente monitorata l’efficacia della spesa: diversamente, la valutazione avviene prevalentemente su dati di natura meramente finanziaria/contabile che poco hanno a che vedere con gli output e gli outcome del processo educativo (si veda l’analisi del bilancio 2009 del Ministero dell’Istruzione, proposta dalla Ragioneria Generale dello Stato). Il lavoro avviato dall’INVALSI riguarda la realizzazione di test standardizzati su un campione rappresentativo di scuole, a diversi gradi di studio. Tale sforzo appare promettente, ma maggiori risorse devono essere investite per questa finalità; inoltre, più sistematicità e completezza è necessaria nell’ambito dell’analisi stessa.
Un’ultima nota. Se, effettivamente, il piano del ministro Gelmini vedrà la luce, esso comporterà una significativa riduzione del numero di docenti, che si tradurrà in consistenti risparmi di spesa pubblica entro qualche anno. A quel punto, sarà necessario stabilire delle priorità di utilizzo per queste risorse. Una possibile scelta potrebbe essere quella di destinare le risorse ad altri Ministeri e funzioni: sarebbe, invece, importante mantenere la spesa nel settore, investendo su quelle linee di sperimentazioni e innovazioni che possono cambiare davvero il volto del nostro sistema scolastico, rinunciando così alla tentazione continua dell’aumento senza criterio del numero di docenti.