Il Consiglio dei ministri venerdì non si è svolto, ma sono comunque emerse le informazioni sul testo della riforma dell’università che si doveva approvare, e che sarà verosimilmente varata in queste ore. Le principali novità sono le seguenti.

1) Una revisione della governance interna degli atenei che, tra le altre cose, attribuisce maggiori poteri e funzioni a Rettore e direttore generale, e prevede un maggior coinvolgimento di soggetti esterni (almeno il 40%) nel consiglio di amministrazione. 2) La possibilità di fusione, anche parziale, tra atenei diversi al fine di razionalizzare le attività e renderle meno costose e più efficienti. 3) L’istituzione di un fondo nazionale per il merito presso il ministero dell’Economia, tramite il quale concedere borse di studio, buoni servizi e prestiti d’onore a studenti che abbiano un particolare livello di merito scolastico (da certificarsi mediante una prova nazionale). 4) La revisione dei concorsi per professori di prima e seconda fascia, con un primo step nazionale (per l’ottenimento di una “abilitazione”) ed un secondo step locale, in cui ciascuna università seleziona i propri docenti con procedure comparative pubbliche (cui possono accedere solo coloro che hanno precedentemente ottenuto l’“abilitazione”). 5) L’istituzione di figure di ricercatori a tempo determinato (per la verità, un tale istituto già esiste, seppure con modalità differenti da quelle ivi previste). 6) Inoltre, la riforma contiene una delega per la modifica delle regole per (I) il diritto allo studio universitario, (II) la revisione dei sistemi di contabilità degli atenei, (III) la definizione di nuovi criteri di allocazione delle risorse pubbliche alle università.



È difficile, dal mio punto di vista, formulare un giudizio di merito sul provvedimento e sulle novità che esso comporta. Infatti, ognuno di questi interventi, considerato singolarmente, sembra avere una sua ragionevole giustificazione. Manca tuttavia, a mio parere, un quadro sufficientemente chiaro degli obiettivi complessivi di una tale riforma. Volendo dare credito al dibattito che, nell’ultimo anno, ha riguardato il sistema universitario italiano, si può ritenere che gli obiettivi di riforma dovrebbero riguardare due aspetti. Da un lato, il potenziamento delle attività didattiche e di ricerca delle nostre università, che sembrano ottenere performance molto basse a livello internazionale (si veda, ad esempio, la recente classifica del Times Higher Education Supplement 2009). Dall’altro lato, la necessità di contenere la spesa pubblica nel settore, poiché i comportamenti di alcune università hanno nei fatti “sforato” i limiti di una corretta gestione finanziaria (ad esempio, molti atenei hanno un’incidenza dei costi fissi per il personale, sul totale del bilancio, oramai insostenibile).



 

 

Il giudizio sulla riforma proposta dal Ministro Gelmini dovrebbe dunque prendere le mosse dalla sua adeguatezza rispetto a questi obiettivi. Credo che si possa dire che la politica adottata in questa proposta sia di aumento della regolazione statale: in altre parole, per risolvere i problemi descritti in precedenza, la soluzione prospettata è quella di un nuovo insieme di regole definite a livello statale. Il messaggio, sottointeso alla riforma, è il seguente: poiché le università hanno dimostrato di non sapere trarre beneficio dall’autonomia, occorre ri-definire un nuovo insieme di regole che consenta un loro maggiore controllo.



Dal mio punto di vista, questa è una strada tendenzialmente sbagliata. Innanzitutto, questa impostazione frustra l’iniziativa di quelle università che, seguendo percorsi virtuosi di contenimento della spesa e incentivi interni al miglioramento della qualità, hanno saputo competere (anche a livello internazionale) in questi anni. Inoltre, la strada delle regole ha, di fatto, già fallito negli anni precedenti. Ad esempio, dal 1998 esiste una norma che impedisce alle università di spendere più del 90% delle risorse ricevute dallo Stato in assegni fissi per il personale: tuttavia, molte università hanno superato tale limite senza essere sanzionate.

Una strada probabilmente migliore, a mio avviso, è definire obiettivi di policy chiari (ad esempio, l’aumento delle pubblicazioni scientifiche, il miglioramento della qualità dei laureati, ecc.), lasciando le università libere di perseguire tali obiettivi come meglio credono, e utilizzando la leva dell’assegnazione delle risorse statali come incentivo per le università che ottengono migliori risultati. Sotto questo profilo, la necessità del nostro sistema universitario è una riduzione dei vincoli normativi e regolamentari esistenti, non un loro aumento. Dovrebbero essere fissate poche regole, in modo stringente (ad esempio, in relazione al controllo della spesa); tali regole dovrebbero essere poi costantemente monitorate, per punire severamente quegli atenei che non le rispettino.

Il timore, invece, è che l’ennesima riforma del reclutamento dei docenti, la fissazione di regole uniformi per la composizione di Senati accademici e Cda, e così via, altro non facciano che aumentare la rigidità del nostro sistema universitario, senza risolvere i problemi, e impedendo invece alle università migliori di operare in modo dinamico per emergere sulla scena internazionale.