Varata ieri a Roma dal Consiglio dei Ministri, la riforma Gelmini dell’Università italiana ha subito riscontrato pareri discordanti e trasversali da parte di maggioranza e opposizione, chi la taccia di statalismo e chi ne elogia alcuni drastici punti di cambiamento rispetto al vecchio sistema accademico. Il Senatore Nicola Rossi, del PD, sembra particolarmente apprezzare il testo. Gliene  abbiamo chiesto i motivi



 

Senatore Rossi ha colpito la sua approvazione nei confronti del ddl Gelmini per la riforma dell’Università. Che cosa apprezza di questo provvedimento?

Sebbene faccia parte dell’opposizione trovo in questo Disegno di Legge sull’Università molti punti apprezzabili, nonostante si sia ancora molto lontani da una riforma che sia davvero eccellente. Ma posso tranquillamente affermare che si tratta di un passo avanti in una direzione che condivido pienamente. I “tagli” gestionali che devono essere effettuati trovano in queste novità la possibilità di concretizzarsi e riavviare anche se di poco l’inceppata macchina degli atenei.



Rettori in carica “solo” per otto anni, maggior managerialità dei direttori, rappresentano punti importanti di cambiamento?

Che la carica dei rettori sia limitata è senza dubbio un bene, ma forse è l’incidenza minore sotto questo versante. Il punto non è tanto cambiare i rettori quanto invece, come giustamente è scritto all’interno di questo disegno, promuovere figure di stampo manageriale alla conduzione degli atenei. Per questo saluto l’introduzione dei direttori generali che non avranno solo funzione amministrativa, ma anche gestionale delle università. Infatti la questione è che molti rettori italiani sono convinti che il problema delle accademie sia solo quello di governance. In realtà finché l’università italiana non disporrà di adeguati incentivi che la porteranno a premiare il merito dubito che potrà crescere sotto il versante meramente culturale.



Alcuni ravvisano in questo ddl un’ombra di statalismo. Anziché, per esempio, essersi ispirati alle buone prassi si è preferito sottoporre a normativa nazionale tutti gli atenei. Come giudica questa opinione?

È utopistico pensare che si possano prendere ad esempio i casi di eccellenza per le università italiane. Se infatti si parte da queste e si compone una legge su tali criteri è come pretendere l’immediata trasformazione di tutti gli atenei d’Italia, e ciò, non c’è bisogno di dirlo, è piuttosto irrealistico. Siamo 60 milioni di cittadini, direi che le università d’eccellenza fisiologicamente non possano essere più di cinque o sei. Da questo punto di vista è ragionevole pensare che le università abbiano regole sufficientemente comuni, regole elementari ragionevoli. Piuttosto sarebbe un fattore importante, che manca in questo abbozzo di riforma, il dare alle università veramente di eccellenza la possibilità di autogestirsi con un’organizzazione scientifica, didattica e amministrativa.

Per quanto riguarda le decisioni prese nei confronti dei ricercatori?

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È positivo il fatto che il ruolo dei ricercatori sia sostanzialmente a tempo. Sembra un controsenso detto da una persona come me che si batte contro il precariato, ma tale non è. Perché il mestiere dei ricercatori non può essere paragonato ad altri lavori, non tutti sanno farlo. Non affermo questo in toni classisti, ma per così dire “vocazionali”. Il lavoro del ricercatore è un lavoro di passione e pazienza, non può diventare un serbatoio di precariato. Per questo trovo giusto sia che l’età per diventare docenti di ruolo sia stata abbassata dai 36 ai 30 anni, che lo stipendio sia aumentato e, soprattutto, che si disponga di un periodo di tempo determinato per capire se la strada intrapresa è la propria o meno.

 

Anche i docenti saranno sottoposti a esami, è un rischio o un’opportunità?

 

Tutto ciò che in qualche modo seleziona, parlando del campo accademico, credo che sia utile e opportuno. Ma soprattutto spero che cambi la logica per la quale si apprezzi o meno l’operato di un docente. Di fatto questo non emerge nel Disegno di Legge del ministro Gelmini, ma il passo avanti è evidente. Io docente universitario dovrei essere il primo ad avere l’interesse che venga scelto il migliore dei professori possibili come mio collega. Questo perché l’andamento positivo di un ateneo dovrebbe giovare all’intero corpo docenti. Che cosa manca ancora? Il fatto che siano le università a pagare o guadagnare rispetto alla scelta dell’assunzione di un insegnante. Così sarebbero incentivate a spendere soldi e premiare il merito.

 

Dunque sembra davvero soddisfatto dalla direzione intrapresa dal Governo, ma non ha trovato nemmeno il cosiddetto pelo nell’uovo?

 

Be’ in parte ho elencato quale mancanza. Direi che il difetto principale risiede in quello che è il mio personale “cavallo di battaglia”, ossia la questione delle fondazioni universitarie, la possibilità per le università d’eccellenza di organizzarsi diversamente sotto il profilo tecnico, scientifico, didattico, amministrativo che rimarrebbe un naturale complemento di questa riforma. Anzi proprio perché in un certo senso “statalista” faciliterebbe il lavoro delle eccellenze.