Luisa Ribolzi, parlando del Rapporto OCSE sull’istruzione 2009, ha fatto un’affermazione che merita di essere ripresa: l’Italia avrebbe in questi decenni privilegiato l’equità rispetto all’eccellenza. Lo si potrebbe dedurre dal fatto che le spese del sistema italiano per la scuola sono largamente superiori a quelle per l’università.
Domandarsi se questa tesi sia vera è importante, anche per le politiche da perseguire per innalzare il livello degli apprendimenti in Italia. Bisogna puntare alla riduzione o alla eliminazione dei livelli bassi oppure all’ampliamento delle nostre striminzitissime fasce di eccellenti?
Preliminarmente bisognerebbe sgombrare il campo dal mito del laureato italiano che va a New York e fa faville. La sua esistenza sarebbe la prova dell’eccellenza della scuola, oltre che della razza italica. Nessuno nega la possibile esistenza di questi casi; è notorio che le circostanze sfavorevoli aguzzano l’ingegno dei più dotati, che siano però anche i più aggressivi. È anche vero che un sistema fuori controllo istituzionale, come quello della scuola italiana, se non garantisce una medietà accettabile, può paradossalmente generare più eccezioni, giovani particolarmente brillanti, magari a prescindere dalla scuola.
Tuttavia una società avanzata ha bisogno di un’eccellenza diffusa che non emerga contro o nonostante il contesto, ma che ne permetta uno sviluppo equilibrato e relativamente sereno. È questa fascia ampia che sembrerebbe mancarci.
I rapporti internazionali OCSE-PISA si sono sempre posti molto fortemente il problema dell’equità. L’esplicito orientamento dei pedagogisti progressisti europei che lavorano all’OCSE ne fa un problema importante, se non quello cruciale. In ogni Rapporto perciò ci si pone, per i vari Paesi, il problema della proporzione fra risultati medi raggiunti ed equità.
Come misurare l’equità di un sistema? In termini tecnici si usa il “gradiente”, che consiste nella rappresentazione grafica di una funzione che abbia il livello degli apprendimenti in ordinata ed il livello socioculturale della famiglia in ascissa e che – poiché i due fattori vanno di conserva – assume la forma di una freccia con la punta rivolta verso l’alto. Tanto più l’inclinazione della freccia è forte, tanto più il livello economico sociale incide sugli apprendimenti e perciò l’equità è più bassa.
Ora, l’Italia risulta costantemente fra i paesi con risultati bassi ma con equità alta. Il che significa che la maggior parte dei nostri studenti si addensa su un livello medio – basso; non che manchino i bassi-bassi, ma non sono così numerosi come nei Paesi a più alta polarizzazione, fra cui si annoverano non solo il Messico, ma anche Germania e Stati Uniti. L’alto livello della equità italiano deriva però soprattutto dalla scarsità di studenti di livello alto. L’equità può infatti anche registrarsi nella diffusa ignoranza.
Nel rapporto nazionale PISA 2006, elaborato dall’INVALSI, viene osservata la tendenza nel tempo. Mentre in Matematica la distribuzione percentuale dei quindicenni italiani rimane invariata anche nel 2006 rispetto alla situazione non esaltante del 2003 sopra descritta, in Lettura assistiamo addirittura ad un lieve peggioramento. I livelli alti 6 e 5 continuano ad oscillare intorno al 5% a confronto di una media OCSE intorno all’8-9%. I livelli intermedi 4 e 3 scendono rispettivamente dal 19% al 17% e dal 30% al 26%, con un aumento della percentuale di chi si colloca sotto il livello 3, che passa dal 44% al 50%.
Quando si tratta di PISA, però, si è oramai capito che parlare di Italia è poco chiarificatore.
Per esempio, PISA 2003 e PISA 2006 hanno mostrato che la Lombardia si trova, anche se non in modo molto brillante soprattutto nel 2006, nel quadrante che il Rapporto definisce “golden”: quello in cui si trovano i Paesi con risultati buoni o accettabili e con una buona equità.
La differenza della situazione lombarda con la situazione italiana è probabilmente data dal fatto che i livelli bassi-bassi sono un po’ meno affollati, ma, soprattutto, che spuntano fuori anche studenti in grado di rispondere alle prove dei livelli più alti (5 e 6) altrove del tutto latitanti.
Osservando il gradiente italiano, si nota infatti che assomiglia ad una freccia lanciata verso l’alto, che però in punta flette: gli studenti con più alto background socioculturale non raggiungono il livello di apprendimenti atteso, pari cioè a quello dei loro coetanei degli altri Paesi posti nelle stesse condizioni.
Sembra dunque che la tesi iniziale (l’Italia ha scelto l’equità e non l’eccellenza) sia suffragata anche da altre prove, oltre quella della destinazione degli investimenti. Va aggiunto però che si tratta di un’equità al ribasso.
Poiché le ricerche dovrebbero servire ai decisori politici ed ammininistrativi, se ne deduce che l’Italia ha effettivamente bisogno di politiche di sostegno delle eccellenze, purché siano quelle vere.