Il “non-senso” dello stare a scuola non riguarda solo i ragazzi italiani, è un fenomeno registrato dall’OCSE-PISA dal 2001 in tutti i Paesi oggetto dell’indagine triennale. In Italia la percentuale è molto alta: 38%; la media OCSE-PISA è del 22%. Sono le percentuali dei ragazzi che, a domanda, rispondono: «La scuola è l’ultimo posto dove vorrei stare». Da quando quella ricerca fu resa pubblica, sono incominciate le discussioni pubbliche sulle diagnosi e sulle terapie. A queste ultime appartengono le sperimentazioni inglesi e francesi. Se la motivazione è scarsa, perché non provare con gli incentivi? Così in tre istituti professionali di Créteil, alla periferia di Parigi «se il numero di assenze e la condotta saranno mantenuti entro parametri accettabili, la classe conquisterà un “bonus” tra i 2.000 e i 10.000 euro», che poi saranno investiti in progetti collettivi. Così in Inghilterra, nel 2008, 200mila studenti, provenienti da famiglie disagiate, hanno iniziato a ricevere da 11 a 33 euro alla settimana in cambio della frequenza in classe. La strada degli incentivi materiali appare la più semplice ed efficace. Del resto è ormai massicciamente percorsa anche da molte famiglie italiane: “paghette”, premi di fine quadrimestre o di fine anno, motorini, cellulari ecc…



Ma non porterà lontano. Il fatto è che le diagnosi sono inadeguate. Esse tradiscono la cattiva coscienza delle generazioni adulte e delle istituzioni educative. Perché i ragazzi, man mano salgono lungo la scala dell’età, si disamorano della scuola? Sono emerse due classi di risposta. Una attribuisce il “mal di scuola” all’obsolescenza dei sistemi educativi, che hanno una comune radice nel modello napoleonico, fondato sulla centralità della cittadinanza statuale, e pertanto sul ruolo dello Stato centrale. Si tratta di uno schema pedagogico-didattico uguale per tutti, che muove dall’alto verso il basso di ciascuna persona: formare “cittadini di Stato” per servire i destini della nazione, sulla base di programmi di studio sempre più enciclopedici. Combinato con l’Welfare universalista della seconda metà del ’900, questo schema ha prodotto dei grandi apparati ideologici di Stato – per usare l’espressione del filosofo francese Louis Althusser – contro cui si è ribellato confusamente a suo tempo il movimento del ’68.



 

Non sono stati abbattuti, ma fortemente delegittimati, questo sì. In questa classe di risposte, la contraddizione principale che viene tematizzata è quella tra la logica egualitaristica dei grandi apparati e le istanze di personalizzazione dei singoli. Ciò che funziona per formare “cittadini seriali di stato” non funziona per rispondere alle domande della “persona”. Questa diagnosi non è del tutto applicabile al modello anglosassone. Che però soffre lo stesso del “mal di scuola”. Un’altra classe di risposte è quella che attribuisce il “non-senso” al “mal du siècle” che affligge la modernità: il nichilismo. “L’ospite inquietante” – l’espressione è di Nietzsche – frequenterebbe ormai stabilmente le nostre famiglie, le nostre scuole, i mass-media, la cultura diffusa. Donde non solo “mal di scuola”, ma anche “mal di famiglia”, “mal di insegnare” ecc… . Naturalmente si tratta di una versione meno drammatica del nichilismo nietzscheano. Essa consiste non tanto nell’affermazione che la Realtà fuori di noi non esiste – il nichilismo ontologico – quanto nell’idea che essa non è conoscibile e non merita di essere conosciuta. Il rapporto di conoscenza con il mondo è racchiuso nel cerchio soggettivo delle nostre proiezioni interpretative sul mondo. La conoscenza si perde nel “circolo ermeneutico”, nel labirinto di sensazioni, emozioni, stimoli. È il nichilismo gnoseologico. Come a dire che occuparsi del mondo, della storia, di ciò che è accaduto e di ciò che accade non vale la pena; l’intelletto e la volontà non riconoscono confini oggettivi e vincoli con cui misurarsi. Il mondo non è una sfida, ma una libera costruzione arbitraria, una sorta di Lego. Il presente è già abbastanza pieno di voci e rumori per riempire l’orizzonte emozionale e conoscitivo. E su questo presente appaiono chinati i nostri giovani in una sorta di consumo bulimico. No, nessuna disperazione. Allan Bloom lo ha definito nel suo Closing of the American Mind “un nichilismo senza abisso”. Di qui il mutarsi della “scientia” in “tristitia”, di qui la passione verso il mondo trasformarsi nella spinoziana “passione triste”. O “passione inutile”, scriveva Sartre.



Probabilmente ambedue le classi di risposte colgono una parte della verità della condizione presente. O forse – ma è solo la mia personale opinione – obsolescenza dei sistemi educativi e vulgata nichilista si incrociano al punto di intersezione, nel quale si trova ciascuno dei nostri ragazzi. In ogni caso gli incentivi pecuniari o di altro tipo non basteranno a riportare all’amore della conoscenza del mondo e perciò a far amare i banchi di scuola.