La scuola italiana a volte appare schizofrenica nelle sue intenzioni e nelle sue azioni.

Viene questo pensiero leggendo il recente intervento di Tiziana Pedrizzi avente per tema l’equità e l’eccellenza nel nostro apparato scolastico. La questione parte da lontano nel tempo. Fino agli anni ’60/’70 la scuola imponeva un suo statuto culturale e dei programmi ai quali si adattavano gli studenti che possedevano intelligenza, talenti e volontà sufficienti, o addirittura notevoli, in partenza. La scuola riconosceva e premiava queste “eccellenze”, lasciando indietro una cospicua massa di studenti non adeguatamente dotati. Con l’istituzione della scuola media unica del 1962, e soprattutto con l’emanazione della legge 517/77, si sancì l’impegno della scuola a promuovere in tutti gli alunni una crescita culturale e formativa attraverso processi di individualizzazione dell’insegnamento/apprendimento.



Oggi, a distanza di trent’anni – e nonostante la sollecitazione espressa dalla Riforma Moratti che mette al centro della scolarizzazione il processo di “personalizzazione” – la scuola non è ancora a misura di tutti. Se è vero che per raggiungere tutti le nostre istituzioni scolastiche hanno di fatto abbassato il livello quali/quantitativo dei suoi standard, tralasciando (o trascurando) le eccellenze presenti nell’utenza, è altrettanto vero che si sta verificando un fenomeno particolare e curioso che merita un’iniziale analisi. Fino a qualche anno fa la curva gaussiana della scuola vedeva una percentuale massiccia di studenti al proprio centro (la medianità), mentre ai lati della curva si collocavano alcune eccellenze e alcuni alunni in difficoltà che non raggiungevano gli standard minimi di apprendimento. Oggi il centro della gaussiana è meno affollato e si verifica una concentrazione consistente nella coda della curva che raccoglie gli alunni con “difficoltà di apprendimento”.



Almeno due sono i fattori responsabili di tale trasformazione:

Nonostante la common opinion che definisce i bambini/ragazzi di oggi più intelligenti, più perspicaci e “svegli”, molti alunni presentano fin dalla scuola primaria quelle che vengono definite difficoltà specifiche di apprendimento (DSA). Una ricerca ha rilevato che un alunno su quattro è affetto da tali difficoltà le quali possono riguardare la lettura (dislessia), gli automatismi del calcolo (discalculia), prestazioni grafiche scadenti e scorrette (disgrafia e disortografia). Pur non essendo veri e propri handicap, i disturbi succitati inficiano una fluidità nell’apprendimento e, di conseguenza, generano una disaffezione all’impegno scolastico che genera frustrazione e fatica non compensata da risultati apprezzabili. Il fenomeno DSA è diventato talmente macroscopico che in Commissione Istruzione alla Camera si sta approntando un disegno di legge che prevede una didattica specifica per gli alunni dislessici, forme di verifica e valutazione adeguate, diagnosi precoce e così via.



Altrettanto numerosi sono gli studenti che presentano difficoltà di apprendimento non imputabili a fattori genetici ma a disturbi/disequilibri relazionali ed emotivi, che a volte hanno origine in ambito familiare e sociale. Tali difficoltà producono in questi alunni il “non senso” dello stare a scuola di cui ha trattato Cominelli su queste pagine. L’apprendimento richiede una personalità minimamente armonica, con delle certezze sul mondo e sull’umanità. Una persona in qualche misura disturbata è impedita nell’attenzione, nella curiosità nei confronti della realtà, nel desiderio di misurarsi in un compito che può essere percepito lontano dal proprio bisogno che urge.

Ora, sia pur con pesi e responsabilità differenti, la scuola si trova a dover gestire la situazione di numerosi alunni che a diverso titolo sono impediti a vivere la scolarità come occasione serena e positiva per la loro crescita e la loro conoscenza. Forse, a fronte delle suesposte osservazioni, il problema dell’equità della scuola va affrontato con uno sguardo sull’eccellenza ed uno sulla sofferenza nei processi di apprendimento. Lo slogan “non uno di meno”, che trova d’accordo i più, richiede una nuova definizione dell’impegno della scuola sia nelle finalità che nelle modalità. È quasi d’obbligo richiamare la necessità della “personalizzazione” di percorsi di insegnamento/apprendimento, consapevoli però che la struttura attuale delle scuole crea non pochi ostacoli all’attuazione della suddetta personalizzazione (classi numerose, poche compresenze di docenti, alunni aggregati per classi di età e non anche per gruppi di livello/interesse). Anche il ddl sulle difficoltà specifiche di apprendimento che si sta preparando (e che sembra interessante e corretto nella sua articolazione) può risultare un formulario di intenzioni e pratiche non applicabili in un sistema sempre uguale a se stesso. E i docenti? Rischiano di essere afflitti da ansia di prestazione e/o disaffezione per un compito che appare ormai troppo arduo. E’ allora urgente ripensare e precisare in modo chiaro e organico compiti professionali dei docenti e standard di apprendimento per gli studenti.