Fanno le medie e ci disorientano. Li ricordiamo bambini con la loro freschezza e apertura al mondo e di colpo ce li ritroviamo per lo più apatici, cinici, inconcludenti, disinteressati a tutto. Una specie di mutazione – generazionale? sociale? antropologica? – che dovrebbe far sorgere spontanea una domanda: cosa è successo? Anzi cosa è stato fatto loro?
Lo scarto che osserviamo fra elementari e medie non è infatti un dato di natura, non è perché sono diventati adolescenti e “allora si sa che va così”, non è un passo obbligato verso il diventar grandi. È piuttosto accaduto qualcosa per cui i nostri ragazzi si sono trasformati e chiusi.
Guardandoli dal mio osservatorio particolare – lo studio professionale, in cui o li incontro direttamente o, per lo più, ne sento i racconti da genitori in difficoltà alle prese con figli cosiddetti “difficili” – dal punto di vista fenomenologico riscontro soprattutto tre punti di inciampo:
È smarrita l’esperienza della possibilità della soddisfazione personale. Apparentemente niente dura, niente soddisfa se non l’immediato, occorre sempre trovare qualcosa di nuovo di eccitante. Ne fa poi da contraltare il tenersi occupati in attività ripetitive e fisse, quali ad esempio i videogiochi sempre uguali a loro stessi, che di fronte al panorama della mancanza di soddisfazione almeno sedano un pochino l’angoscia;
È smarrita la concezione di lavoro, anzi del nesso lavoro-risultato. Voglio diventare una star del calcio, ma non mi alleno, voglio trovare una fidanzata, ma non corteggio la ragazza che mi attira, voglio fare l’università, ma non studio per la verifica di domani. Esiste uno scollamento tra risultato desiderato e lavoro per ottenerlo, perdendo il concetto di investimento: cioè che devo metterci qualcosa di mio perché possa andare come desidero. Anzi alla domanda, cosa vuoi fare da grande, sempre più spesso sento rispondere “il pensionato”. Il pensionato nell’immaginario del ragazzo riassume l’idea di chi prende i soldi senza lavorare;
È smarrito il nesso atto-conseguenza, ossia: se questo allora quello. Lo vedo in atto quando i ragazzi interrogati sul perché hanno fatto una certa cosa rispondono: “l’ho fatto perché mi è venuto in mente”, “l’ho fatto così”, “mi ha preso lo schizzo”. Soprattutto la perdita di atto per il beneficio proprio e altrui, sostituito da un atto im-mediato, ossia non mediato dal e nel rapporto.
Ciò che è accaduto è che da bambini che erano sono stati omologati al pensiero di un adulto patologico. E scomodo volutamente questa parola pesante perché il prototipo della normalità psichica resta il bambino che sta bene (se non ritornerete come bambini…), tutto sbilanciato verso l’altro del rapporto, dove l’altro è percepito come fonte del proprio beneficio.
Sono gli adulti che vorrebbero non lavorare, ma vincere al superenalotto (guadagno senza lavoro), gli adulti che divorano Harry Potter (“con la bacchetta magica” = risultato senza investimento), gli adulti che non credono più che si possa essere davvero felici e spesso non si rendono conto di ciò che fanno e dicono (fino a perdere il lavoro, il marito o la moglie, i soldi…).
Il cosiddetto adolescente si ritrova quindi schiacciato fra un’infanzia infantilizzata che gli è chiesto di abbandonare e un mondo adulto tendenzialmente patologico di cui riconosce tutte le contraddizioni e a cui si ribella.
Per noi, una questione che è bene chiarire: il ragazzo che ci infastidisce col suo fare, che ci delude, che magari ci sgomenta, in realtà rispecchia le nostre debolezze, le mette a nudo davanti ai nostri occhi. Sono queste che non sopportiamo, che ci viene da rigettare, non il ragazzo stesso.
In questo panorama esiste però una bella notizia: alla loro età resta un’apertura e una disponibilità che non possiamo mancare né misconoscere. A nessuno di loro piace davvero vivere la noia, essere sempre oppositivi, fare casino come unica fonte di divertimento, non lavorare sistematicamente. Non dobbiamo credere quando mettono la maschera degli smaliziati o dei più furbi. Stanno invece chiedendo. Prima di una definitiva omologazione con i modelli (pur fallimentari) dell’adulto che hanno sperimentato, lanciano un ultimo grido e non prendere sul serio tale domanda che magari maldestramente pongono è mancare a un appuntamento irrinunciabile.
Come potremmo spiegare Facebook – qualsiasi giudizio ne possiamo avere – se non come il tentativo di soddisfare il bisogno di esserci, di essere protagonisti? Pubblicare on line ciò che sto facendo in ogni istante ci dice della voglia di raccontarsi. Poco importa che poi nessuno ascolti o sia davvero interessato a me; io comunque esisto, mi affermo, grido che ci sono. Occorre allora qualcuno che riesca a raccogliere questa richiesta, che si trasformi da contatto di cui fare collezione come le figurine a vero amico in carne e ossa.
Dal Meeting per l’Amicizia fra i Popoli di Rimini di quest’anno abbiamo consolidato la certezza che la conoscenza è un avvenimento, un’esperienza. I ragazzi hanno bisogno di testimoni che rendano affascinante l’esperienza della conoscenza, che sottraggano il sapere all’essere l’unico scotto da pagare per entrare nel mondo degli adulti cinici.
"La carità non esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove, lo anima dall’interno. Il sapere non è mai solo opera dell’intelligenza. Può essere certamente ridotto a calcolo e ad esperimento, ma se vuole essere sapienza capace di orientare l’uomo alla luce dei principi primi e dei suoi fini ultimi deve essere “condito” con il “sale” della carità. Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l’amore. … Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore" (Caritas In Veritate 30).
Nelle scuole rischiamo di annoiare intere generazioni di studenti proponendo un sapere astratto che non risponde alla loro esigenza di essere protagonisti della propria esistenza.
E’ un errore trattare i ragazzi delle medie come degli adolescenti in crisi, brufolosi e preda degli ormoni, proiettandoli di diritto in una categoria moderna – l’”adolescenza” – che per altro non corrisponde ad alcuna reale tappa psicologica dell’uomo. Le età della vita sono due, l’infanzia e l’età adulta. In mezzo sta un periodo di passaggio riconoscibile unicamente dal percorso di maturazione sessuale, con l’emergenza di questioni già affrontate da piccolini, ma poi messe a tacere.
I nostri ragazzi vanno trattati per quello che sono, giovani uomini e giovani donne, soggetti che chiedono che venga preso sul serio il loro pensiero, che vengano stimati in quanto desiderosi di esserci nel mondo e dire la loro. Niente è più intollerabile per un bambino o un ragazzo del rendersi conto che viene disprezzato il suo tentativo di afferrare la realtà come uomo o donna.
In quanto loro maggiori siamo di fronte un’alternativa: o ci indispettiamo, fino all’insofferenza, per il loro modo di fare o ci poniamo in una posizione adulta di comprensione e di incontro.
Comprensione: non coincide affatto col giustificare ogni atteggiamento che quando è da riprendere va fatto con decisione (alcuni ragazzi che ho incontrato in studio non aspettavano altro che un adulto che facesse l’adulto e che li fermasse!), quanto con l’identificare il bisogno che sottende al comportamento stesso, bisogno che nella maggior parte dei casi è buono e normale, nonostante si possa esprimere con forme inadeguate.
Incontro: i nostri ragazzi hanno bisogno di incontrare degli adulti che raccolgano le esigenze del loro cuore e propongano un sapere che abbia la forma di un incontro. Che sia l’insegnante stesso, un testo stampato, la storia di grandi uomini e grandi imprese del passato, le scoperte dell’umanità.
Ecco, le scuole medie hanno questa opportunità di diventare un luogo dove amore e intelligenza non sono separati, un luogo che non voglia renderli adulti partendo da un’idolatrata infanzia, quanto che li raccolga già adulti nel desiderio che li muove nel loro pensare ed agire, e che ne permetta il compiersi pieno nell’affronto con la realtà. A partire da un adulto appassionato, rispettoso e amoroso che viene incontrato davvero. Un adulto che si riveli finalmente amico del loro pensiero.