Diventa sempre più chiara l’esigenza di far coesistere i tre momenti della valutazione: quella interna, che valorizza il percorso come momento della relazione educativa, quella esterna, che favorisce la comparabilità fra istituti entro il sistema, quella certificativa, che dà trasparenza al percorso in termini di acquisizione di competenze stabili nel tempo.
La chiarezza del passo da compiere non risparmia dai problemi.
Se il ripristino dei voti numerici e del blocco del debiti formativi ha voluto essere un segnale per chiudere la stagione della “valutazione fumosa”, questo non significa affatto che basti utilizzare dei numeri per avvicinare fra loro valutazione interna e valutazione comparabile, né che la dichiarazione del voto garantisca da sola una chiarezza in termini di competenze acquisite. E questo non perché resta aperto il famoso problema di “cosa considero 6” (che rimane aperto). Il problema è istituzionale e riguarda la possibilità pratica di ogni insegnante di andare nella direzione indicata.
Forse non ci si rende conto che ci sono vincoli a non finire: nel contesto attuale, mettere un certo voto negativo comporta che l’alunno possa “rimediare”, perché alla fine la media dei voti deve tornare, e se un numero è stato scritto sul registro non può essere cancellato. I voti sono, si sa, in “congruo numero”: di solito due orali e tre scritti, che per il controllo di un processo che dura circa 4,5 mesi (un quadrimestre) e deve prevedere la possibilità di “recuperare” è inadeguato. Il vecchio registro registra le “prestazioni” come se si trattasse di prove di ugual peso: un compitino, una domanda dal posto, sul registro sono numeri tanto quanto un’interrogazione discorsiva di un’ora, una domanda volante pare lasciare minori garanzie all’alunno perché «non c’è motivazione del giudizio». Gli strumenti materiali e normativi non aiutano.
E questo è solo l’inizio. Dietro uno sforzo di “trasparenza” dell’insegnante che cercasse di dire pane al pane (e dare un bel 4 quando ci vuole) si nascondono rischi a non finire: i ricorsi al TAR, il taglio delle classi, il precariato, le pressioni dei dirigenti, che conducono in fondo alla scelta semi-obbligata del quieto vivere.
Questi problemi non possono essere accollati al professore singolo, e nemmeno al collegio docenti quando delibera i criteri di valutazione. Si tratta di aspetti che investono il sistema e chiedono una corresponsabilità istituzionale. Se la sterzata verso i voti, le misurazioni e le prove standardizzate resta monca di questi aspetti, il rischio è che i professori siano costretti a diventare ipocriti, o si ritrovino inopinatamente forcaioli: in entrambi i casi cresce il disagio in chi ha a che fare, per scelta di mestiere, con problemi complessi che coinvolgono l’autostima dei ragazzi, la percezione che essi hanno di se stessi attraverso i voti, il delicato rapporto fra successo e crescita, il bisogno di una figura adulta di riferimento.
Resta poi il problema del 6: attualmente esso mi pare mal posto, se non altro perché in decenni di discussioni non se ne è venuti a capo, e questo vorrà pur dire qualcosa. Continueremo a discutere all’infinito di come si debba definire la soglia di sufficienza, se non avremo chiarito prima cosa si intende per padronanza, cioè il punto di arrivo (il massimo) e i passaggi parziali (i livelli intermedi in termine di compito che un ragazzo più o meno abile è in grado di svolgere), e quindi i passi per arrivarci (l’accompagnamento didattico passo per passo fino alla padronanza). La descrizione dei compiti connessi ad un certo grado di padronanza è indispensabile, perché non è possibile misurare se non si ha una scala di misura, che in questo caso è costituita in pratica da compiti progressivamente più difficili. In questo senso l’esperienza dell’OCSE PISA è assolutamente preziosa, e dovrebbe essere conosciuta analiticamente in modo assai più diffuso che non nelle sole 4 regioni convergenza.
L’esperimento di una seconda correzione delle prove scritte (italiano e matematica) dell’esame di maturità (si tratta come è noto di un punto cruciale), che l’INValSI ha avviato già dall’anno passato, pare procedere in questa direzione. Attraverso la ricorrezione di un campione significativo di elaborati, si indaga l’abilità degli studenti, chiedendo a correttori esterni selezionati dall’INVlaSI di esaminare un certo numero di compiti attraverso i 12 descrittori dei 4 ambiti della padronanza, e di identificarli secondo una scala a 4 livelli, prima ancora di stabilire se la prestazione sia o no sufficiente, buona etc: la costruzione di una scala ordinata su quattro gradi infatti è già in sé una forma di misurazione.
Il presupposto è duplice: da un lato che ogni insegnante sappia giudicare se una prestazione è migliore o peggiore di un’altra, sappia cioè ordinare i compiti in una gerarchia, ancor prima di esplicitare dove collocherà la “soglia” di accettabilità.
Il secondo è che sia possibile distinguere diversi gradi di padronanza per uno stesso descrittore, e che non ci si limiti alla rilevazione della presenza/assenza di una certa capacità. La scala ordinale presuppone infatti un duplice assunto: che ci siano compiti più difficili di altri, e che uno studente sia più abile se sa svolgere compiti più difficili. Si tratta del resto del medesimo presupposto delle prove OCSE PISA. Questo può preludere anche alla descrizione, o “messa in chiaro” di quali siano i livelli corrispondenti ai diversi gradini.
Per esempio (sulla prova scritta di italiano): saper fare una subordinata relativa con verbo intransitivo preposizionale dovrebbe essere più difficile che usare il che polivalente per la relazione temporale; articolare i concetti secondo una progressione tematica coerente più difficile che elencare a catena elementi uniformi, etc. Nella comprensione del testo avviene lo stesso: saper sciogliere un nesso pronominale e risalire all’antecedente, inferire il valore semantico di un passaggio logico non espresso da congiunzione, … sono elementi di difficoltà, che possono essere misurati. Se possono essere descritti e misurati, possono anche essere educati. Il raggiungimento di singoli livelli può avvenire attraverso quelli che si chiamano test fattoriali (un passo alla volta, appunto), che non paiono coincidere con le nostre “interrogazioni”.
Come si vede i diversi problemi a questo punto si intrecciano: il ripensamento dei curricoli in termini di competenze non è affatto un esercizio di traduzione da una lingua all’altra, ma la declinazione in termini di realtà di quanto è insito nell’atto dello scrivere ( e quindi del parlare, dell’ascoltare etc.). La certificazione di elementi descrivibili (raggiungibili in modo anche parziale) deriva coerentemente da un impianto analitico, mentre il momento sintetico del passaggio da una classe all’altra resta la vera responsabilità di ogni insegnante, che si fa garante di un processo verso la padronanza, e non di un atto formale soggetto a ricatti di varia natura.