Il rapporto sulle rilevazioni per la scuola primaria è il secondo importante step per il Sistema Nazionale di Valutazione (SNV), dopo le prove standardizzate nell’esame di Stato a conclusione della scuola secondaria di I grado, entrate a regime quest’anno dopo un anno di sperimentazione. L’anno passato ha preso avvio il programma di valutazione degli apprendimenti di italiano e matematica secondo la nuova normativa, che prevede la misurazione in ingresso (classe II) e in uscita (classe V) della scuola primaria, con l’intenzione di osservare il “valore aggiunto” dato dalle suole. I test erano stati predisposti dal Gruppo di lavoro durante l’anno scolastico 2007-2008, pre-testati nel 2008 e somministrati alle classi nel 2009, nel mese di maggio.



Altri su questo giornale hanno avviato il commento sugli esiti, sulle percentuali, sulle differenze fra nord e sud, fra ragazzi e ragazze, italiani e stranieri; altri indicheranno quanto ogni scuola può dedurre dalle informazioni fornite dai dati. Voglio tornare, con nuovi elementi, su temi che in verità ho già trattato altre volte a proposito delle valutazioni standardizzate degli apprendimenti.



Le prove esterne costringono a ripensare il problema del core curriculum e degli standard da un punto di vista particolare, e probabilmente costruttivo. La predisposizione di test prevede infatti la definizione del costrutto, cioè delle dimensioni indagate: “che cosa intendiamo misurare?” e anche “quello che misuriamo è fondamentale per la formazione?” Si tratta di un approfondimento dei documenti ministeriali come le Indicazioni per il curricolo, necessariamente generali. Il merito della ricerca è quello di indicare gli oggetti di apprendimento definendoli in termini di capacità, tradotti in compiti e operazioni, come un documento programmatico non potrebbe fare.



Inoltre, altrettanto importante è l’aver posto il tema dei livelli di difficoltà. I test, per riuscire a pesare tutti, devono contenere diversi pesi, costituiti dai quesiti. La domanda più difficile serve a pesare gli studenti più abili, la meno complessa permette di cogliere questa dimensione anche al livello più accessibile. L’argomento però è essenziale per tutti, bravi e meno bravi. I risultati in uscita sulla difficoltà delle domande permettono di individuare fasce di difficoltà, che possono essere descritte a posteriori sulla base di riscontri oggettivi. Per questo si attende, da parte del gruppo degli statistici dell’INValSI, il rapporto sui punteggi: non bastano infatti i dati “grezzi” già presentati per le medie e per le elementari, che indicano soltanto le percentuali di risposte corrette, come se ogni quesito pesasse “1”, ma è necessario sapere quanto ciascun quesito pesa in termini di difficoltà, il che emerge a posteriori per opera della metodologia statistica applicata ai dati.

 

Resta il problema che, almeno nella prova per la III media, essa fa parte dell’esame: pone quindi la domanda sul livello di sufficienza, attraverso la attribuzione di un peso differente ai diversi item, come è stato suggerito nel corso della misurazione di giugno, pur con parere non vincolante. Lo stesso potrà accadere se verranno introdotte, come previsto dalla normativa, prove standardizzate anche all’interno dell’esame di Stato finale della scuole di II grado.

Il “livello di accettabilità” però, a parte le indicazioni ex ante, si verifica ex post innanzitutto con la comparazione fra scuole sul territorio nazionale e, in modo più prossimo, a livello regionale: una scuola può trovarsi nella media oppure sopra o sotto, e questo indica in un certo senso se il livello considerato standard da quella scuola è adeguato oppure no in confronto con altri soggetti simili. Se la media di livello nazionale è a sua volta adeguata, si vede nelle prove internazionali, in cui ogni nazione mette il proprio standard medio in comparazione con altri paesi (naturalmente solo per certi settori considerati cruciali, come la lettura o la risoluzione di problemi matematici). 

Se poi la media stabilita internazionalmente sia valida, si vede molto indirettamente dai rapporti economici fra le nazioni: si scopre così che l’adeguatezza è la misura di capitale umano necessario alla complementarità reciproca fra nazioni entro la società globalizzata: un obiettivo parziale rispetto agli scopi dell’istruzione, ma non per questo meno urgente.

 

Da tempo le prove INValSI producono un effetto sui curricoli: la grammatica, per anni relegata a cenerentola, è tornata di attualità. Colpisce, nelle prove di italiano per la scuola primaria, la tensione a recuperare il valore della riflessione sulla lingua non solo come concettualizzazione classificatoria e terminologia specialistica, ma come strumento indispensabile alla comprensione. 

Da qui la ricerca, da parte del Gruppo di lavoro, anche di modalità nuove di porgere i quesiti di grammatica, non solo come capacità di nominare i fenomeni: qual è il valore di coesione di un pronome anaforico? È in grado lo studente di comprendere il riferimento fra un “lo” e il nome o la parte di frase a cui esso si riferisce? È in grado di comprendere il potere di suggerimento insito in un condizionale “dovresti”? Ricostruisce la funzione dei connettivi in ordine alla costruzione delle relazioni logiche entro e oltre la frase? Per intendersi, un “infatti”, un “ma”, parole morfologicamente e sintatticamente semplici, ma semanticamente assai sfumate.

Per la comprensione testuale le dimensioni sono quelle già sperimentate: capacità di individuare il significato di espressioni nel contesto, di integrare informazioni diverse, di fare semplici inferenze, di comprendere i nessi testuali e sintattici, espliciti o impliciti. Basta consultare le chiavi di correzione dei test allegate insieme al fascicolo della prove per rendersi conto dello sforzo di chiarificazione sulle operazioni connesse ai compiti e sulla traduzione delle conoscenze in competenze.

 

 

Se questi sono gli obiettivi, è in grado la scuola di perseguirli ? Le prove mostrano le eccellenze e anche le lacune. Nel caso della prova della scuola primaria le percentuali di risposte corrette alle singole domande danno qualche indicazione sui campi in cui gli studenti risultano meno preparati: i pronomi sono sempre problematici, la categoria del numero (sia nelle parti nominali sia nel verbo) suscita difficoltà, la funzione di ausiliare del verbo “avere” induce in errore, il pronome relativo, come prevedibile, è ostico; questo per restare nell’ambito della grammatica.

La difficoltà del quesito (e quindi la scarsa percentuali dei ragazzi in grado di rispondere) non serve solo a discriminare fra studenti abili e non abili, ma indica dove investire: è evidente infatti che i nostri scolari saranno tanto più abili quanto più saranno in grado di superare compiti difficili. L’insegnante efficace, per riprendere una terminologia nota, sarà quello che riesce a portare i suoi allievi a superare difficoltà crescenti nel corso degli studi, cioè ad “apprendere”.

È la fine della scuola-per-socializzare, della scuola-parcheggio pomeridiano, del titolo di studio formale, del lusso di permettersi una generazione impreparata. Nessuno nega che le condizioni istituzionali della scuola possono essere più o meno di aiuto a questo percorso, ma nessuno più ormai nega che il compito della scuola è la crescita degli allievi.