Gli insegnanti non amano il coro. Sono soli e preferiscono lavorare da soli. Il lavoro cooperativo in équipe non è ritenuto un valore fondante, non è richiesto dal contratto, non è coltivato dai Dirigenti. È affidato ai meccanismi automatici degli Organi Collegiali. D’altronde l’orario è strutturato in maniera rigida e compatta, costruito all’inizio di ogni anno componendo faticosamente – oggi per via informatica – il puzzle dei “desiderata” del cosiddetto “corpo insegnante”.
È l’intera tradizione scolastica italiana che spinge in direzione dell’insegnante “solista”. Dalla fondazione del sistema educativo nazionale nel 1859 fino agli anni ’60 del Novecento l’insegnante è un funzionario pubblico dello Stato, che trasmette il proprio pezzo di sapere, dentro una missione statal-nazionale; la posizione istituzionalmente individualistica è redenta dalla forza egemonica che l’istituzione statale esercita verso la società civile: l’Amministrazione funziona come un gigantesco Organo collegiale, che convoglia i rivoli individuali dei docenti nel fiume pubblico dell’educazione nazionale. Con l’avvento e la rapida espansione della scuola di massa, il funzionario intellettuale si è trasformato nell’operaio-massa: un modesto travet, dipendente pubblico sindacalizzato, un impiegato che arriva, parla nella sua classe e se ne va. La classe è una scatola nera nella quale nessuno può mettere occhio. Il principio della “libertà di insegnamento” da ogni pressione ideologica statale è invocato a difesa della solitudine pedagogico-didattica. Dall’esterno, la scuola appare come una catena di montaggio, in cui ciascun insegnante aggiunge il proprio pezzo, secondo tempi e metodi prefissati; alla fine del processo di assemblaggio il “prodotto” esce lucido e perfetto. Forse.
Tuttavia, poiché nella scuola le relazioni educative, culturali, istituzionali, professionali sono una tela di ragno estesa e pervasiva, di cui quella tra l’IO-docente e TU-allievo è solo uno dei gangli, si è incominciato, dopo l’onda di piena del ’68, a tentare di costruire la “comunità educante”, che le comprendesse tutte quante. I Decreti delegati del ’74 hanno introdotto vari Organi collegiali, nel tentativo di formalizzare sul piano istituzionale e burocratico la trama delle relazioni. A molti anni di distanza il bilancio è deludente. Né l’autonomia introdotta alla fine degli anni ’90, né il POF né i Dipartimenti hanno potuto intaccare in profondità il “solipsismo” dei docenti. D’altra parte, la spinta culturale alla individualizzazione e alla personalizzazione dei processi educativi e didattici, che le pedagogie personaliste hanno culturalmente rappresentato e teoreticamente giustificato, ha reso ancor più evidente lo scarto tra la domanda personalista e la risposta dell’apparato statale scolastico.
Mutamenti di cultura e di istituzioni sembrano inevitabili, se gli apparati istituzionali, ordinamentali e didattici vogliano rispondere alla struttura e alla dinamica della relazione educativa. Chiaro essendo che è questa la sorgente della società e della storia. Gli insegnanti sono al crocevia di questo non facile mutamento. Senza nuova cultura, nuovi apparati, nuove regole, nuovi ordinamenti che incorporino il principio della comunità educante, l’appello alla personalizzazione e al lavoro cooperativo suona tanto necessario quanto retorico-eroico.
La tesi di questo scritto è che già da oggi sono praticabili forme efficaci di comunità tecnico-professionale degli insegnanti.
Qual è la struttura delle relazioni educativo-didattiche? Il centro, il destinatario, il protagonista delle relazioni è il ragazzo, l’IO da cui ci si muove è/deve essere il suo. Questo IO si rapporta a una pluralità di TU. Si tratta di un IO in autocostruzione, al quale i genitori, gli insegnanti, gli altri ragazzi, l’ambiente portano materiali che l’IO filtra, scarta, ricicla. Si tratta dunque di una relazione IO-VOI. Invece, dal punto di vista dell’insegnante, la relazione è tra un IO-docente e un TU-allievo o, poiché anche l’insegnante ha davanti parecchi TU, tra un IO-docente e un CIASCUNO-allievo. Di qui la tentazione autointerpretativa di tipo solipsistico da parte del docente. Ma poiché la relazione fondante è quella tra IO (allievo) e VOI (insegnanti, genitori ecc…), allora il lavoro cooperativo tra i docenti ne costituisce una conseguenza rigorosa e inevitabile.
E perciò la costruzione di una comunità educante tecnico-professionale, in cui ciascun docente misura e confronta il proprio lavoro con ogni altro docente coinvolto nella relazione IO-VOI, è la condizione tecnica e deontologica di una relazione educativa matura, centrata sul “rischio educativo”. Viceversa, l’effetto inatteso e controfinale di un “rischio educativo” ridotto all’IO (docente)-TU (allievo) è l’oscuramento della relazione originaria IO-VOI per approdare alla frammentazione del VOI in tanti TU-docenti, nella quale l’IO del docente si realizza, ma l’IO dell’alunno si frammenta. La comunità tecnico-professionale dei docenti si fonda dunque sul primato della relazione tra IO-alunno e VOI-docenti. Essa concretamente vive nella costruzione delle competenze-chiave di ciascun alunno. Prese complessivamente e singolarmente, esse sono l’obbiettivo di ciascuno e di tutti gli insegnanti dell’équipe di classe. Per esempio: l’Educazione linguistica non tocca solo al professore di Italiano, ma anche a quello di Inglese, a quello di Matematica eccetera, e così per ciascuna delle cinque competenze-chiave disciplinari e per le tre trasversali. Attorno a questi due fuochi dell’ellissi educativa (quello della relazione IO-VOI e quello delle competenze-chiave) si costruisce dunque la comunità tecnico-professionale dei docenti e assumono un senso non puramente istituzionale e burocratico la personalizzazione dei percorsi, il POF, l’autonomia completa delle istituzioni scolastiche, il riconoscimento del merito e della professionalità dei docenti.
Il lavoro di équipe non è una scelta morale, è la conseguenza della natura della relazione educativa.