Si è espresso il parere del Consiglio di Stato sul contenuto del Regolamento dei nuovi licei, in un primo tempo sospeso in attesa di ulteriori chiarimenti in merito da parte del Miur.
È stata sospesa l’emanazione del parere e non, come da più parti erroneamente proclamato, la Riforma Gelmini. Resta che l’organo amministrativo nella sua nota del 26 novembre scorso pur ponendo obiezioni non insormontabili e tali, con probabilità, da non interrompere l’iter della riforma della scuola superiore di II grado, data la determinazione del Ministro Gelmini a volerne avviare l’attuazione già dal prossimo anno scolastico, interveniva su una materia di particolare attualità e sulla quale si è giustamente aperto un dibattito su queste pagine: l’autonomia degli istituti scolastici.
I giudici amministrativi rilevavano, tra l’altro, un’incongruenza tra l’eccesso di autonomia concessa dal regolamento (in particolare era preso di mira l’art. 10, là dove esso accorda ai piani di studio dei singoli istituti una quota che «…non può essere superiore al 20 per cento del monte ore complessivo nel primo biennio, non può essere superiore al 30 per cento nel secondo biennio e non può essere superiore al 20 per cento nel quinto anno, salvo restando che l’orario previsto dal piano di studio di ciascuna disciplina non può essere ridotto in misura superiore a un terzo nell’arco dei cinque anni») e quella contemplata dal Dpr 275/99 che introdusse l’autonomia degli istituti scolastici.
In questo senso, il Consiglio di Stato chiedeva al Ministro Gelmini di chiarire il nesso tra le due implicazioni del concetto di autonomia funzionale, rilevando che «il testo del regolamento sembra spingersi ben oltre la mera razionalizzazione dei piani di studio e degli orari, sia per la profondità con cui impatta su questi ultimi, sia, soprattutto, perché contiene diverse disposizioni che eccedono tale ambito in senso stretto» (così si legge nel testo della nota).
Il contenuto del regolamento sull’autonomia del ’99, in realtà, non ci pare meno eccessivo di quello sui licei, naturalmente entro i termini che esso stesso poneva: autonomia funzionale intesa come autonomia didattica e organizzativa, di ricerca, sperimentazione e sviluppo.
Con l’autonomia didattica, inquadrata nel Pof (Piano dell’Offerta Formativa) le scuole possono (potrebbero) fare un po’ di tutto, dall’articolazione modulare del monte ore annuale di ciascuna disciplina e attività, alla definizione di unità di insegnamento non coincidenti con l’unità oraria della lezione; dall’attivazione di percorsi didattici individualizzati, nel rispetto del principio generale dell’integrazione degli alunni nella classe e nel gruppo, all’articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso, ecc.
In nome dell’autonomia organizzativa, le scuole possono impiegare i docenti in ogni tipo di modalità organizzativa «che sia espressione di libertà progettuale e sia coerente con gli obiettivi generali e specifici di ciascun tipo e indirizzo di studio».
All’interno dell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo è inserita la possibilità di progettare la formazione e l’aggiornamento dei docenti, nonché esperienze di innovazione metodologica e disciplinare.
Quanto alla questione della quota oraria di autonomia, il Dpr 275/99 prevede all’art. 8 che «le istituzioni scolastiche determinano […] il curricolo obbligatorio per i propri alunni in modo da integrare la quota definita a livello nazionale con la quota loro riservata…». Il successivo decreto ministeriale 234/2000 disponeva che tale quota fosse costituita dal 15% del monte ore annuale. I decreti emanati in seguito alla Riforma Moratti (L. 53/2003) previdero sia una quota regionale, che una quota di istituto, portando al 20% la quota di istituto, confermata poi da un decreto del Ministro Fioroni.
È improbabile, dunque, che i riflettori del Consiglio di Stato siano diretti alla prerogativa che lo Stato, tramite il Miur, si arroga, di determinare quote di autonomia più consistenti (30% nel secondo biennio), quanto piuttosto alla riconosciuta eventualità che l’offerta formativa dell’istituto possa comportare la riduzione di una qualche disciplina fino ad un terzo nell’arco dei cinque anni.
Un’eventualità che doterebbe le scuole (e chi le governa) di notevoli competenze organizzative, accresciute ancor più dalla scomparsa, nell’ultima versione del regolamento, del divieto a non sopprimere l’insegnamento di alcuna disciplina nell’ultimo anno (limitazione che compariva nelle redazioni precedenti).
Non c’è dubbio che questa prospettiva (riduzione di un terzo e soppressione/spostamento di discipline rispetto al quadro orario stabilito) travalica i limiti di una autonomia didattico-sperimentale per aprire, seppure larvatamente, l’orizzonte di una autonomia sostanziale con la quale si determinano gli organici di istituto e addirittura si profila una modificazione dello svolgimento dell’esame di Stato, conclusivo dei quinquenni liceali.
Si tratterebbe, da parte delle scuole autonome, non solo di avere a disposizione pacchetti di ore utili a progettare insegnamenti opzionali e/o facoltativi (nei limiti del monte ore complessivamente consentito, come prevedeva la riforma targata Moratti) ma anche, e soprattutto, di creare blocchi disciplinari più consistenti (il mitico “core curriculum”?) nel biennio o nel triennio, spostando e/o sopprimendo intere filiere disciplinari.
In un certo senso, dunque, le criticità messe in luce dal Consiglio di Stato giungono a proposito: ci auguriamo permettano di chiarire un nodo di fondamentale importanza per il futuro assetto della scuola italiana, consistente appunto nell’uso dell’autonomia.
Essa infatti richiede di essere sviluppata, anziché essere cristallizzata in una bacheca che gli anni trascorsi hanno ricoperto di una certa polvere.
Perché ciò avvenga c’è bisogno di una sua riedizione strategica, al servizio della scuola reale, e di assoluta chiarezza, anche nei documenti ministeriali.