Il Giorno della Memoria ha lasciato quest’anno uno strascico di polemiche, scatenate dalle assurde dichiarazioni di qualche vescovo lefebvriano che nulla hanno a che fare con la posizione della Chiesa già netta nella condanna del razzismo nazista nel 1937 con la Mit Brennender Sorge di Pio XI a cui hanno fatto seguito le decise condanne dell’olocausto culminate con le due commoventi visite di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI ad Auschwitz. Sono quelle di queste giorni polemiche vuote, sulle quali ha campeggiato la pazienza di Benedetto XVI e la sua immensa paternità.
Anche se non ce ne sarebbe stato bisogno il Papa ha ribadito l’esplicita condanna della Shoah, affermando che lo sterminio degli ebrei debba essere “per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti”. La decisa risposta di Benedetto XVI è quanto basta perché si metta la parola fine ad una polemica vuota e si viva la memoria come possibilità di riscatto dell’umano.
Io l’ho vissuta partecipando assieme a tre colleghi e a ventiquattro studenti della scuola in cui insegno all’iniziativa “Un treno per Auschwitz” promossa dalla Provincia di Milano. E’ stata un’esperienza di grande intensità, un’esperienza che mi ha fatto andare ancor di più alle radici di una delle tragedie più orrende della storia umana. Delle commoventi giornate che ho trascorso sulle tracce di chi ha sofferto la violenza aberrante dello sterminio ciò che mi rimane nel cuore sono gli sguardi degli studenti e dei colleghi con cui ho vissuto questo viaggio nella memoria, sguardi pieni di orrore, ma nello stesso tempo pieni di quella speranza che anche ad Auschwitz si sente quanto mai viva e incombente. Come sono imponenti i segni del male, ancor di più lo sono le tracce del bene, tracce che hanno segnato profondamente il solco della terra di Auschwitz e che sono rimaste indelebili a dare una prospettiva di positività alla vita degli uomini e al rapporto tra i popoli.
La certezza di questa positività ce l’ha data Aldo Pavia, un ebreo sopravvissuto che ci ha accompagnato a visitare il campo di sterminio e che ad un certo punto, fermandosi durante il suo appassionato racconto ci ha detto:” noi uomini amiamo la vita, siamo fatti per vivere e desideriamo vivere”. In quel momento dentro la nostra visita si è incuneata la sua certezza di bene, la certezza che ad Auschwitz non la morte, ma la vita è rimasta la parola definitiva sull’uomo.
E’ di questa certezza che vive la memoria, la certezza di Annah Arendt, “che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. … ma solo il Bene ha profondità, e può essere radicale”. Fare memoria oggi è quindi assumere dentro la propria vita quotidiana la certezza di bene che ha vinto anche ad Auschwitz, la certezza di tutti coloro che tra baracche e filo spinato hanno affermato che l’uomo non è fatto per la morte, ma per la vita, la certezza di un bene su cui costruire l’oggi.
(Gianni Mereghetti)