Sono fiero di appartenere ad una tradizione, per la quale il criterio della popolarità non è decisivo per stabilire della correttezza dei giudizi. Per la quale il successo non è misura del valore.

Per questo, in un momento nel quale sembra prevalere, almeno nel resoconto dei mezzi di comunicazione, una visione dell’Università italiana che credo distorta e fuorviante, trovo molto apprezzabile lo spazio aperto e privo di pregiudiziali ideologiche, dedicato al dibattito sull’Università da Il Sussidiario, nel quale già sono emerse riflessioni critiche rispetto al pensiero dominante, come ad esempio quelle di Giorgio Vittadini e Mario Maggioni.



1. Un consenso che trovo sconcertante nel dibattito di questi mesi è quello che si è creato attorno all’idea che una svolta si possa determinare “premiando il merito”. Come se il problema dei problemi non fosse piuttosto quello di identificare il merito. Come se non ci si accorgesse che nel progredire della conoscenza scientifica, in particolare, ma non solo, nelle scienze umane, per individuare il merito occorrono di norma decenni, se non secoli, e la riflessione di generazioni di pensatori, non il parere di un referee. Come se non fossero sotto gli occhi di tutti esempi in cui il merito è stato confuso con il consenso, e il consenso ha prodotto mostri.



Se si potesse rilevare oggettivamente il “merito” sarebbe opportuno premiarlo. Ma se siamo seri non possiamo negare che la rilevazione oggettiva del merito non è disponibile. E quindi se davvero si vuole premiare il merito è necessario “sporcarsi le mani” e prendersi la responsabilità di valutare soggettivamente, e caso per caso.

Non di rado però il quasi immediato corollario del “premiare il merito” è quello che afferma, nella consolidata tradizione italiana dei “grandi vecchi” e dei mostri da sbattere in prima pagina, che il merito non viene premiato, perché qualcuno non lo vuole riconoscere e invece premia chi meriti non ha. Il problema dell’Università italiana sono dunque i “baroni” e sarebbe risolto se si desse spazio ad altri.



Questa visione semplicistica potrebbe essere archiviata con un’alzata di spalle, se già non si fosse fatta strada nel dibattito corrente fino a raccogliere il consenso di vasti strati dell’opinione pubblica, per questo rischiando addirittura di influenzare il legislatore.

Ma un rischio a mio avviso ancora più grave è quello che i tratti, che appaiono a volte manichei o forse anche giacobini, delle posizioni espresse da alcuni compromettano la coesione della comunità scientifica, un suo patrimonio insostituibile per il quale la conoscenza si trasmette e si sviluppa in un rapporto dialettico, ma organico, tra studiosi anche appartenenti a diverse generazioni, nel rispetto reciproco.

2. La questione dell’utilizzo degli indicatori bibliometrici per la valutazione della ricerca e dei ricercatori è connessa alla precedente. Infatti, in non pochi di coloro che caldeggiano tali strumenti traspare una sostanziale sfiducia nella capacità della professione accademica di auto-regolarsi. Ma anche chi sostiene l’uso di questi strumenti in buona fede, non sembra cogliere il pericolo che dietro al loro impiego si cela per il pluralismo e le identità culturali non dominanti.

Il numero di citazioni non è in sé un indicatore di qualità, ma di diffusione, di consenso.

Filoni e scuole di pensiero minoritari (per metodologia, riferimenti culturali, sistemi di valori) sono quindi penalizzati nelle graduatorie bibliometriche internazionali. E lo stesso vale per i temi di rilevanza locale o nazionale. Ma, se si usano quei criteri, la qualità, il “merito”, è identificata da indicatori numerici: se ha un certo numero di pubblicazioni in riviste con un certo ranking internazionale il lavoro di uno studioso ha dignità scientifica, altrimenti no.

Questo ha implicazioni enormi, perché orienta i ricercatori a concentrarsi sui filoni di indagine, e a utilizzare i paradigmi interpretativi, più popolari, producendo formidabili spinte al conformismo, che certo impoverisce la scienza e frena il suo progredire.

Il problema è particolarmente evidente nelle scienze umane, nelle quali spesso si confrontano paradigmi interpretativi diversi, e non può essere trascurato da chi abbia un’identità culturale che può risultare vittima delle spinte egemoniche altrui. A solo titolo di esempio si consideri il termine-concetto di sussidiarietà, che è marginalizzato e considerato quasi solo nella dimensione verticale (in connessione alla questione del federalismo) nei filoni dominanti della ricerca economica. Ma ci sono enormi, e in certi ambiti ancora più gravi, pericoli nelle scienze mediche o in quelle biologiche.

Se poi dall’identità culturale passiamo a quella personale le preoccupazioni non diminuiscono: c’è il rischio di disincentivare contributi insostituibili alla vita della comunità scientifica che non trovano riscontro nelle misure di performance utilizzate (dibattere con i colleghi o leggere i loro manoscritti, indirizzare i giovani, preparare le lezioni, supervisionare i tesisti, esercitare responsabilità di governo delle istituzioni accademiche).

3. E’ mia profonda convinzione che il dibattito degli ultimi mesi sull’Università abbia troppo spesso trascurato problemi fondamentali per focalizzarsi su particolari che si prestano ad un’ipersemplificazione di sicuro impatto mediatico. Forse per superficialità o per scelta strumentale volta a conseguire obiettivi interni o esterni all’accademia.

Vorrei dunque elencare alcuni temi, sui quali credo sia invece importante concentrare la riflessione e lo sforzo di riforma. Lo faccio a mo’ di elenco delle “cose da fare”, ben sapendo che ciascuna delle questioni meriterebbe ben maggiore approfondimento, e senza pretese di esaustività:

Abolizione del valore legale del titolo di studio,

Incentivazione della mobilità degli studenti sul territorio (prima di tutto con piani organici di edilizia universitaria),

Sostegno finanziario alla frequenza dei meritevoli,

Revisione di alcuni aspetti dell’organizzazione didattica (ad esempio è davvero necessario avere 8-10 appelli di esame all’anno quando in molti altri Paesi ce ne sono al massimo un paio?).

In conclusione credo tuttavia non sia inutile sottolineare che per il bene dell’Università, ancora più della soluzione dei suoi problemi strutturali, sia necessario che chi vi opera trovi un ambiente idoneo ad esprimere la passione per il proprio lavoro, la ricerca e l’educazione dei giovani, e non già un terreno avvelenato di battaglia ideologica e caccia alle streghe.


[1] La crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando non è forse un caso in cui un consenso avvallato anche da eminenti “scienziati” ha fatto accettare come ammissibili pratiche che hanno portato il sistema sull’orlo del collasso?
[2] Una rilevazione realizzata dal sottoscritto nel catalogo ISI-Web of Knowledge (quello dell’Impact Factor) il 1° dicembre scorso ha trovato solo 51 articoli nei quali il termine “subsidiarity” viene indicizzato per l’area di Economia contro i 1505 di “profitability” o i 204 di “central planning”.