Molti dati sono emersi dallo scandaglio che la Fondazione Agnelli ha lanciato nel mare magnum degli insegnanti italiani, presentato ieri a Roma. Per l’essenziale sono confermati e aggiornati i risultati di ricerche che negli ultimi vent’anni sono stati proposti da enti pubblici, università, soggetti privati: il numero esorbitante di insegnanti rispetto agli alunni (1 su 10); il carattere di proletariato pubblico assunto dalla categoria; l’età media, fino a ieri di 48 anni, ora sale a cinquant’anni. Così come sono ribadite le proposte politiche che il variegato mondo riformista della scuola ha avanzato lungo gli anni in merito alle modalità di assunzione, di carriera, di retribuzione.



Nulla di nuovo, dunque? Intanto, emerge un profilo variegato degli orientamenti alla conservazione o all’innovazione del corpo insegnante, che mette in discussione la vulgata interpretativa circa l’orientamento strutturalmente conservatore dei docenti. Circa il 30% dei docenti è favorevole ad una ridiscussione e al cambiamento dei programmi. I docenti soffrono ogni giorno sulla propria pelle il fatto che i ragazzi respingono il curriculum. Esiste un 30% di docenti che non si limita a scaricare sui ragazzi, sull’ambiente, sui mass-media, sulle famiglie le responsabilità di questo rifiuto. Al contrario, si predispone a interrogarsi sulle proprie responsabilità, quale che possa essere la soluzione. Ed è il 30% che chiede di essere valutato. Un 25% vuole maggiore autonomia delle scuole e quindi dei docenti singoli e associati in comunità tecnico-professionali.



In termini assoluti, poiché gli insegnanti sono 819.000, significa che circa 240.000 insegnanti sono sensibili alle ragioni del cambiamento. Si tratta di numeri che pareggiano o forse superano quelli iscritti ai sindacati, considerato che questi ultimi tesserano nello stesso comparto anche il personale ATA. Rendere visibile ai docenti stessi, alla società e al governo questo iceberg di docenti orientati all’innovazione è il merito di questa ricerca. Essa toglie di torno un alibi. Le politiche dei governi in questi ultimi quindici anni hanno avuto quale interlocutore solo le sigle sindacali. E poiché le sigle sindacali nei convegni si dichiarano a favore delle innovazioni e ai tavoli contrattuali vi oppongono strenua resistenza, i governi e il Parlamento hanno sempre finito per rallentare o per cedere sulla strada delle riforme, considerando la voce del sindacato quella che parla per tutti.



Qui viceversa emerge che il blocco storico conservatore della scuola non è affatto compatto, è attraversato da vistose fratture. Insomma: un governo che voglia introdurre innovazioni ha un interlocutore silenzioso, ma consistente. Il che suppone un riconoscimento di queste forze, che spesso sono rappresentate da sigle professionali non sindacali.

L’altra novità del rapporto della Fondazione sono le proposte relative al reclutamento. La chiamata diretta, l’Albo professionale, una nuova dinamica della carriera e della retribuzione, eliminando la procedura antiquata e ormai inefficace delle graduatorie nazionali, implicano l’abbandono della figura del docente quale funzionario statale e lo consegnano ad una forma di professionalità riconosciuta, premiata, valutata. Con ciò il Rapporto fa da sponda al PdL 953, primo firmatario on. Valentina Aprea, oggetto di audizioni e consultazioni in questi giorni alla Camera. Il PdL ha suscitato finora una violenta opposizione preventiva da parte dei sindacati, che, in alleanza stretta con l’Amministrazione, hanno in questi decenni pervicacemente bloccato ogni innovazione, sottoproducendo per imperizia e per calcolo una vasta area di sottoproletariato docente, i precari appunto. Il Rapporto viceversa documenta una speranza: che cambiare sia possibile e che il cambiamento può arrivare, se cammina sulle gambe dei docenti.