Come ogni mattina, su questi banchi di liceo, lavoriamo con le parole, pronunciate in tempi antichi. Insegno ai miei studenti che ad ogni parola corrisponde un oggetto, un pensiero, una verità: corrisponde la realtà. Vita, morte, amore, pietà, supplica, carità, bisogno, fragilità, speranza, accadimento, dolore…
Oggi però i miei alunni, tutti, tutti, con una unanimità sconcertante, neppure una voce fuori dal coro!, mi dicono che lottare per mantenere in vita una vita è accanimento e che accelerare la morte è pietà. Dicono che la solitudine e la disperazione di un padre sono coraggio e libertà (“il non accettare valori imposti da altri”). Dicono anche che è giusto che un padre decida per il figlio, “anch’ io vorrei che decidessero i miei genitori per me, mi fido solo di loro” (ma non eri tu, Elisa, che solo ieri ti scandalizzavi del fatto che il pater familias a Roma avesse potere di vita e di morte sui figli, come fossero cose?). Dicono che è preferibile per un padre, impossibilitato ad accudire la figlia, saperla morta piuttosto che affidata alle cure delle suore, “perché altrimenti avrebbe un senso di colpa troppo grande per averla abbandonata ad altri”: e dunque essersi battuto per affrettarne la morte sarebbe un peso meno grave?
Non ci raccapezziamo più. Le parole ora dicono l’opposto di quanto dicevano un tempo. E penso che il mondo sia sottosopra e che viviamo tempi bui, in cui la ragione si è persa. In cui si è perso Dio.
Quel Dio cui si affidavano i miei nonni e che, pur nelle difficoltà dei tempi (la loro generazione, nata con il XX secolo, ha attraversato due guerre mondiali e mille altri mali) garantiva sulla verità di alcune evidenze, dentro cui scorreva salda la vita.
La prima di queste evidenze era che la vita l’uomo non se la può dare e perciò neppure se la può togliere. E che la pietà e la carità hanno sempre accolto le vite offese, malate, bisognose.
Per questi nostri ragazzi non è più così evidente. E perciò vivono confusi, incapaci di dare un nome alle cose. Attraversati e tramortiti da mille messaggi contradditori, vivono come sospesi in un mondo menzognero, troppo spesso pieno di violenza, in cui l’unica cosa chiara è che la vita non vale niente. Bravi ragazzi, studiosi, seguitissimi dalle famiglie, che però al sabato sera bevono e “fumano” fino a tramortirsi, “perché così ci si diverte”. Che ritengono normale usare in modo dissipativo i loro corpi e i loro sentimenti, perché “così fan tutti”.
E sono ragazzi intelligenti e buoni. Resi però cinici da questi tempi bui. Tempi in cui si nega a delle suore, che per anni si sono prese cura di una donna malata, di continuare a farlo, cioè si nega l’esercizio della carità. Perché i miei studenti non si scandalizzano di questo? Perché lo trovano addirittura giusto? Mentre dialogo con loro capisco che altre due parole, che la tradizione legava sempre, con un nesso inscindibile, alla parola carità, sono offuscate in questi tempi: la parola fede e la parola speranza.
Disseppellire queste fondamenta? E’ difficile, ma è il compito più urgente oggi per noi adulti, chiamati ad educare le nuove generazioni.