Ragazzi che aggrediscono, derubano, picchiano, stuprano. Ragazzi come tanti, che provengono da famiglie normali: sbalordite dal comportamento dei figli, che mai li avrebbero pensati capaci di dare fuoco a un barbone o di violentare una compagna di classe. E quando si trovano di fronte a simili episodi – definiti “bullismo”, per l’imbarazzo di ammettere che si tratta di delinquenza vera e propria – finiscono per dare la colpa a terzi: Internet, il contesto socioculturale, la scuola.
E come biasimarli: dal momento che, sin dalla loro nascita, è a questi terzi che i figli sono stati affidati. La radice del malessere di oggi è nell’educazione di ieri, quella che i genitori hanno delegato ad altri. Non sempre è accaduto per loro libera scelta: ma pochi hanno trovato il modo e la forza di opporsi – in particolare quando hanno dovuto abbandonare i figli, poco più che lattanti, per riprendere l’attività lavorativa. Tutto comincia all’asilo nido: può sembrare paradossale affermarlo, visto che da destra e da sinistra non si fa che auspicare la moltiplicazione dei nidi, motivata dall’esigenza di mamma e papà di dedicarsi alla loro realizzazione professionale. A consentirglirlo dovrebbe intervenire lo Stato, proponendosi come sollecito tutore della prima infanzia. Del resto, allo stato attuale delle cose esistono ben poche alternative: obbligati (per ragioni economiche e normative) a rientrare al lavoro, impossibilitati a permettersi una tata qualificata, diffidenti verso baby sitter improvvisate, rassicurati da una vulgata che vuole i nidi luogo ideale per l’età prescolare, i genitori si trovano di fronte a una scelta quasi obbligata.
Eppure, c’è poco da stare tranquilli. L’impatto dell’affidamento prolungato dei bambini al nido viene ancora sottovalutato, almeno nel nostro paese. Altrove, invece, non mancano studi e ricerche. Come in Germania, che tuttora risente dell’eredità della ex DDR, pioniera della realizzazione di un capillare sistema di asili nido pubblici. Gli effetti pedagogici e psicologici sui figli delle lavoratrici della Germania dell’Est furono deleteri: le ricerche condotte sulle fonti disponibili parlano di segni indelebili sulle coscienze dei bambini, dalla diffidenza congenita verso gli altri, all’incapacità relazionale, fino all’aggressività nei confronti degli stranieri. Secondo gli psicanalisti della Deutschen Psychoanalytischen Vereinigung, i benefici dei nidi, che vengono dati per acquisiti, sono più presunti che effettivi: fino ai tre anni di vita, l’unica relazione significativa per i bambini è quella con i propri genitori, nella quale tutte le altre saranno fondate e dalla quale dipenderà perciò l’atteggiamento complessivo verso gli altri.
Gli asili nido non nuocciono solo ai bambini. La delega dell’allevamento dei figli inaugura un processo di deresponsabilizzazione dei genitori che proseguirà per tutto il corso della crescita. Dopo il nido, verrà la scuola, prima materna, poi primaria, poi secondaria – ma sempre pubblica. Viziati dall’assistenzialismo educativo, spalleggiati da un’ideologia permissivista, madri e padri credono di poter rovesciare sull’istituzione scolastica l’intero onere dell’educazione dei figli. Pronti a giustificarli in ogni caso, di fronte ai fallimenti disciplinari e cognitivi, attribuiscono a insegnanti e presidi poco compiacenti intenti persecutori nei loro confronti. Se va bene, con il passare degli anni, si ritroveranno a carico a oltranza i loro pargoli ormai cresciuti; se va male, andranno a far loro visita in qualche istituto di rieducazione o, se l’età lo consente, in carcere.
Per arrestare la deriva è indispensabile restituire alla famiglia la responsabilità di educatrice che le compete, e che scaturisce dalla libertà di scelta. Intervenire sul sistema scolastico, riscoprendo concetti come quello di disciplina e di merito, è necessario, ma non sufficiente; soprattutto se, accanto ai disegni di riforma didattica per alleggerire lo statalismo dell’istruzione, vengono avanzati progetti che estendono l’ombra dello Stato alla delicata fase prescolare, che a maggiore ragione dovrebbe esserle sottratta. Al contrario, è necessario mettere i genitori in condizioni di operare una scelta effettiva sin dalla prima infanzia: destinando i fondi oggi previsti per l’ampliamento dei nidi statali a supportare le opzioni alternative, tra cui quella di seguire personalmente i figli fino ai tre anni. Ammettere che esistono altre possibilità, e fare in modo che madri e padri possano considerarle, vorrebbe dire riconoscere loro la responsabilità della decisione, mettendoli di fronte all’onere della genitorialità. Perché fare un figlio significa molto più che mettere al mondo un nuovo individuo, trasmettergli il cognome, allattarlo e cambiargli i pannolini, e poi affidarlo alle puericultrici di Stato; per ritrovarselo davanti, vent’anni dopo, come uno sconosciuto.