La bozza di Regolamento sul nuovo percorso di formazione dei docenti, approntata dal Gruppo di lavoro presieduto da Giorgio Israel e portata a conoscenza l’altro ieri, 24 febbraio, del Forum delle Associazioni professionali dei docenti e dei dirigenti scolastici, è stata presentata non come un documento blindato, ma suscettibile delle correzioni che risulteranno dal confronto con i soggetti cui spetta il compito di vagliare la preparazione e l’attitudine dei futuri insegnanti: università e scuola, anzitutto.
È certamente positiva l’apertura di una fase di valutazione riguardante la portata delle decisioni che si stanno per prendere in un campo così importante come quello dello spessore culturale e professionale di una figura, l’insegnante, cui è affidata la responsabilità di educare e formare bambini e adolescenti che si presentano con domande ed esigenze che devono essere capite, accolte, aiutate ad approfondirsi.
Probabilmente questa fase doveva tenersi prima che la “Commissione Israel” iniziasse i suoi lavori: si sarebbero raccolte utili preoccupazioni e suggerimenti che derivano direttamente da esperienze in atto “sul campo”.
Ora, un certo tipo di distanza rispetto a ciò che nella scuola accade trapela dalla bozza e su questo nodo crediamo sia opportuno appuntare l’attenzione, non tanto per rivendicare in senso corporativo qualche briciola di organizzazione o di spazio in più, quanto per affermare che nella scuola italiana, ai suoi vari livelli, già si pongono, in determinati casi, le condizioni (esperienze, persone, rapporti, reti) perché nel percorso formativo del docente essa sia implicata maggiormente.
Non siamo certo noi a negare i difetti di una imperfetta autonomia scolastica che ha purtroppo portato, talvolta, dirigenti e docenti a nascondersi dietro il dito del “se non me lo chiede il programma o il ministro non lo faccio”. Di fatto però esiste anche una scuola di qualità (tale perché docenti e dirigenti, magari a fronte di tante energie spese del tutto gratuitamente, si sono mossi a partire da una concezione diversa di sé e del proprio ruolo) che in alcuni territori e contesti è già punto di riferimento.
A questa scuola che ha imparato a fare i conti con sé stessa, a questi spazi di educazione che si sono aperti in alcune scuole, dovrebbe guardare con una attenzione particolare chi si accinge alla mansione di delineare il nuovo iter formativo dei professori.
Immaginiamo una possibile risposta alla questione: nella bozza Israel già si prevede l’effettuazione di un anno di tirocinio, dopo la laurea magistrale, gestito in “comproprietà” tra scuola e università. Lo proverebbe l’affiancamento al tirocinante del docente “tutor” di scuola.
Le cose però non stanno così. La tabella 14, annessa alla bozza, attribuisce al tirocinio formativo attivo (TFA), organizzato e gestito dalle università, il seguente valore in termini di CFU (crediti formativi universitari): 18 per gli insegnamenti pedagogici da svolgersi presso le università; 21 per le didattiche laboratoriali da svolgersi presso le università; 12 di tirocinio attivo presso le scuole; 9 per la tesi finale di tirocinio.
La scuola “vale” 12 crediti su 60: un po’ poco; tanto più che, trattandosi di un tirocinio “attivo”, dovrebbe svolgersi prevalentemente “in situazione”, dentro le scuole appunto.
Siamo convinti che si possa modificare questo impianto, per esempio trasferendo nella scuola (con relativo incremento della quota dei crediti che le competono) i laboratori didattici, che non dovrebbero essere per i tirocinanti dei pensatoi ma luoghi di giudizio su esperienze in atto. Si avrebbero in tal senso due tipologie di tirocinio: il tirocinio inteso come “laboratorio didattico” in situazione; il tirocinio svolto in classe con affidamento al tirocinante di una qualche responsabilità effettiva nella gestione/cogestione della classe.
Siamo anche certi, tanto per riaffermare il concetto che la scuola deve essere considerata per quello che effettivamente vale, che il meccanismo della scelta delle scuole in cui si effettua il tirocinio dovrebbe/potrebbe essere motivata da un qualche tipo di valutazione esterna effettuata con il contributo dell’Invalsi.
Insomma, oltre le immediate contingenze, è giunto il momento di predisporre un sistema che guarda al futuro, cioè ad una scuola che, insieme all’università, contribuisce a sviluppare eccellenze perché rischia fino in fondo il proprio profilo, nell’esercizio dell’autonomia come nella partecipazione ad una comparazione tra diversi standard dell’offerta formativa.