Sono ormai più di trent’anni, da quando cioè Mauro Laeng e Aldo Visalberghi avevano cominciato le loro pionieristiche indagini sul problema, che si sa quanto anche le recenti indagini IEA Pirls 2006, TIMSS 2007, Invalsi 2004-2008, Cqia di Bergamo 2007 continuano empiricamente a confermare.
I nostri allievi sono molto bravi in italiano, matematica e scienze fino alla fine della terza classe della scuola primaria (le prove internazionali si svolgono, infatti, all’inizio della classe successiva). Hanno un vero e proprio tonfo, tuttavia, quando concludono la seconda classe della scuola secondaria di I grado.
Altre indagini non meno attendibili hanno sempre indicato e continuano ad indicare che l’arco del crollo sarebbe, in realtà, ancora più breve: si concentrerebbe, infatti, soprattutto tra fine della quarta classe della scuola primaria e fine delle prima classe della scuola secondaria di I grado. Al confronto, i cali di apprendimento che si registrano successivamente (in particolare, in seconda media e, come documentano le molto ben propagandate e spettacolarizzate indagini Ocse Pisa, alla fine del primo anno della scuola secondaria di II grado) sono raffreddori rispetto alle polmoniti cognitive che colpiscono i ragazzi dai 9 ai 12 anni.
Se questi sono i dati, sono almeno altrettanti trent’anni, nonostante le ricorrenti amnesie di molti interessati a lasciare le cose come stanno, che si conoscono anche le ragioni del crollo degli apprendimenti a quest’età scolastica.
La prima è storica. La scuola elementare è nata per il popolo ed è sempre stata considerata in sé conclusa ed autosufficiente, mai scuola in tutti i sensi «primaria» (cioè più importante delle altre a causa dell’età molto plastica cui si rivolge). La scuola secondaria di I grado, al contrario, è nata per l’élite sociale borghese che doveva continuare gli studi nella scuola secondaria di II grado, per diventare, poi, se ne era capace, attraverso un esplicito processo di selezione, dopo l’università, classe dirigente. Era questa la scuola ritenuta perciò davvero «primaria» dalle élite sociali, dunque. L’innesto tra le due scuole, allo scopo di rifondarne le logiche, integrandole, non c’è mai stato: si è oscillato tra velleitarie pretese della scuola elementare di estendersi fino a 14 anni, per irrobustire la propria popolarità e la propria autosufficienza (la cosiddetta «scuola di base» degli anni cinquanta del secolo scorso, composta da scuola elementare e postelementare) all’armistizio armato tra l’identità delle due scuole, infine risolto con il loro mero accostamento ordinamentale (la soluzione adottata con la scuola media unica del 1962). Da qui, gli evidenti problemi della continuità che ancora ci portiamo appresso.
La seconda ragione è di stato giuridico dei docenti. Proprio le ragioni storiche prima menzionate spiegano perché nell’elementare insegnassero i maestri, nella media i professori e perché i primi avessero una formazione in tutti i sensi inferiore e diversa rispetto a quella superiore dei professori (12 anni contro almeno 18).
La terza è pedagogica. La scuola elementare e i maestri, anche a causa della loro radice popolare, hanno da sempre praticato una didattica che partisse dall’esperienza ambientale e sociale degli allievi per giungere solo dopo ad individuare, attraverso un apposito lavoro riflessivo, le discipline di studio e la cultura presenti in essa. Potremmo dire che hanno sempre privilegiato una didattica attiva e induttiva o, per dirla con Lombardo Radice, la strada della popolarità delle culture, quella che formalizza criticamente i valori, i paradigmi, i comportamenti ecc. contenuti nelle culture antropologiche quotidiane dei contadini, degli artigiani, degli operai, dei commercianti ecc. La scuola media e i professori, al contrario, proprio perché depositari e distributori di una cultura altra rispetto a quella popolare, hanno sempre messo al centro del proprio insegnamento una didattica astratta e deduttiva, che partiva da repertori disciplinari consolidati e/o da paideie elitarie poi da socializzare anche a chi, come i figli del popolo, li considerava estranei alla propria esperienza. Per dirla con il Lombardo Radice hanno da sempre privilegiato la strada della popolarizzazione di una sola cultura, quella tipica delle classi dirigenti. Naturale che l’incontro non armonizzato di queste due impostazioni abbia determinato e continui a determinare problemi di compatibilità e di efficacia.
La quarta ragione del crollo degli apprendimenti tra i 9 e i 12 anni è sociologica. Tutte le ricerche disponibili documentano che, a mano a mano che crescono gli anni di frequenza scolastica, diventa sempre più decisivo, per la quantità e la qualità degli apprendimenti degli studenti, il fattore «condizione sociale e culturale della famiglia». Capita, quindi, che, fino alla terza classe della scuola primaria, l’esuberanza cognitiva degli studenti di questa età evolutiva, da un lato, e la dominanza, in questa scuola, ancora della strategia della popolarità delle culture, dall’altro lato, propizino gli apprendimenti di ogni studente, indipendentemente dalle condizioni sociali e culturali della famiglia di provenienza, e rendano ogni allievo tutto sommato contento e desideroso di imparare. Dalla quarta classe della scuola primaria, tuttavia, la progressiva selezione solo di alcune strategie cognitive, quelle di tipo astratto e deduttivo, per un verso, e la contemporanea sostituzione della strategia della popolarità delle culture con quella della popolarizzazione della tradizionale cultura scolastica classico-aristocratica, per l’altro verso, finiscano per privilegiare gli studenti che provengono soltanto da alcune classi sociali.