Che l’università italiana sia in crisi non è certo una novità. Ma se tutti sono d’accordo nella diagnosi, molto meno chiara è la terapia di cui il nostro malato ha bisogno. È opinione comune che occorra al più presto porre rimedio a questa situazione e trovare una via d’uscita dalla palude in cui l’università italiana sembra essere sprofondata. Non si sa bene, tuttavia, quale sia la direzione lungo la quale muovere i passi del cambiamento. Così, al di fuori di un disegno di riforma complessiva del sistema, anche le diverse proposte recentemente avanzate dal Governo e da singoli parlamentari rischiano di scontare lo stesso difetto che ha spesso caratterizzato gli interventi del legislatore e cioè la parzialità.
Prima di ogni intervento, peraltro, occorrerebbe rendersi conto di qual è il male che attanaglia l’università italiana. Proviamo sinteticamente a fare qualche riflessione al riguardo.
In tutti i Paesi occidentali sviluppati si è posto da tempo il problema di ridefinire le finalità dei sistemi d’istruzione superiore. Rispetto ad altri contesti, semmai, è da rilevare come in Italia il dibattito intorno a tale problema sia piuttosto recente. Per comprendere l’evoluzione dei sistemi d’istruzione superiore occorre esaminare diversi fattori che hanno concorso a delineare la necessità di un cambiamento rispetto agli assetti tradizionali di ciascun Paese.
I principali fattori di cambiamento sono: a) il passaggio da un’università di èlite a un’università di massa con conseguente e progressivo aumento della domanda sociale di istruzione superiore; b) il Processo di Bologna, in base al quale i Paesi coinvolti si impegnano a creare entro il 2010 un sistema europeo dell’istruzione che favorisca la trasparenza e la leggibilità dei percorsi formativi e dei titoli di studio, l’agevole prosecuzione degli studi in un altro Paese europeo, una maggiore capacità di attrazione nei confronti di cittadini extracomunitari, la diffusione di conoscenze di alta qualità per lo sviluppo economico e sociale dell’Europa; c) la crisi del welfare state, che ha comportato una progressiva ingerenza di soggetti esterni (stakeholders) nella vita privata delle università (in Italia il principale portatore di interessi è lo Stato); d) la competizione a livello globale nel “mercato” dell’istruzione superiore.
Questi fattori di cambiamento hanno comportato una trasformazione della funzione tipica dell’università, come tutti gli studi scientifici in argomento hanno bene messo in evidenza. Se, infatti, tradizionalmente l’università aveva il compito di fornire l’eccellenza della ricerca e dell’insegnamento attualmente ad essa è anche richiesto: a) di formare il maggior numero possibile di studenti; b) di essere capace di rispondere alle sempre più pressanti esigenze degli stakeholders (lo Stato e il mondo produttivo; c) di rispondere dell’uso delle sempre più scarse risorse pubbliche ad essa attribuite; d) di offrire una gamma di servizi differenziati (formazione permanente, orientamento in ingresso e in uscita, ricerca applicata per contribuire allo sviluppo economico attraverso la produzione di brevetti e di tecnologie, ecc).
Come ha reagito l’Italia di fronte al verificarsi di tali fenomeni?
Il sistema di istruzione superiore italiano (che coincide poi con il sistema universitario) è rimasto se non impermeabile quanto meno refrattario al cambiamento, con l’effetto, desumibile da un’analisi delle tappe della legislazione in materia universitaria, di generare un’uniformazione del sistema e nel sistema. A ben vedere, dunque, è proprio l’uniformità il principale male dell’università italiana. Ma la causa di questo male discende a sua volta dall’ambiguità di fondo che attraversa il rapporto tra lo Stato e le università. Infatti, da una parte il ruolo della struttura centrale dovrebbe esaurirsi in alcuni compiti legislativamente previsti (programmazione degli interventi per lo sviluppo del sistema, indirizzo e coordinamento, finanziamento, valutazione) ma, nei fatti, è sempre stato un ruolo particolarmente invasivo dell’autonomia universitaria volto a conformare l’azione degli atenei attraverso l’apposizione di regole uniformanti (tale invadenza oggi appare accresciuta dalla crisi fiscale dello Stato); dall’altra parte le università hanno interpretato l’autonomia in un contesto fortemente caratterizzato da logiche corporative e meramente conservative che si oppongono all’esercizio di una autonomia responsabile. Ancora, a livello centrale il Ministero è sprovvisto di autonome competenze tecnico-professionali per svolgere i compiti che sono propri del regolatore di sistema, mentre a livello locale le regole di governance sono sostanzialmente identiche per tutte le università sebbene tra esse vi siano enormi differenze (basti pensare solo alle differenze dimensionali).
Cosa occorre dunque per avviare un cambiamento reale del nostro sistema di istruzione superiore? Come ha detto John Sexton, Presidente della New York University, «la sfida per un’educazione superiore sarà trovare il giusto equilibrio fra innovazione e conservazione».
La parola chiave da opporre a uniformità è, a questo punto, differenziazione. Al riguardo non occorre inventare nulla perché le differenze sono già ora sotto gli occhi di tutti. Occorre piuttosto prenderne atto, riconoscere queste differenze, dichiararle e immaginare strumenti capaci di valorizzarle.
I risultati del Times Higher Education Supplement, uno dei più importanti ranking internazionali, dimostrano che mentre le università italiane sono molto lontane dai primi posti delle classifiche, la qualità media del sistema universitario è buona. Ciò dovrebbe indurre ad una certa cautela nel liquidare l’università italiana come “decotta”, ma, contestualmente, dovrebbe indurre a sviluppare specifiche politiche pubbliche per la differenziazione, la selezione e la promozione dell’eccellenza. Come è possibile fare ciò? E, più in generale, quali sono i nodi da sciogliere per realizzare la differenziazione?
Vi sono cinque aspetti che devono essere affrontati insieme, perché intimamente connessi, in una logica di riforma complessiva del sistema.
1. La governance. Riformare la governance delle università, come da più parti avanzato, ha poco senso se non si provvede, contestualmente, anche alla riforma della governance del sistema centrale. Probabilmente, anzi, la seconda è più importante della prima. Occorre ridefinire il ruolo dello Stato che deve svolgere funzioni di programmazione, finanziamento, supervisione, e valutazione. In questo senso il ministero dovrebbe dotarsi di robusti sistemi informativi e di un autonomo apparato tecnico professionale in grado di supportare le decisioni del ministro.
2. La valutazione. Nella logica della differenziazione un sistema efficace di valutazione è imprescindibile. Occorre però prestare attenzione perché la valutazione da strumento premiante può scivolare facilmente in uno strumento meramente punitivo. In Francia e Germania (che hanno sistemi universitari per molti aspetti “genetici” simili al nostro) la selezione delle eccellenze attraverso rigorosi processi di valutazione è avvenuta contestualmente allo stanziamento di consistenti somme di denaro pubblico (rispettivamente 5 Miliardi di euro in 5 anni in Francia e 1,9 Miliardi in Germania). Altro che attribuzione del 7% del Fondo di finanziamento ordinario agli atenei virtuosi o, peggio, tagli del FFO del 10% come previsto per l’anno prossimo!
3. Il tema del finanziamento, d’altra parte, non si esaurisce appena nella richiesta di una maggiore spesa pubblica, ma impone di considerare anche il problema dell’adeguatezza o meno della contribuzione studentesca e la necessità di attrarre maggiori risorse private. Occorre soprattutto riconsiderare alla radice i criteri di distribuzione delle risorse statali. Sul punto vi sono diverse strade percorribili ed occorre rapidamente avviare un percorso di progressivo cambiamento.
4. La gestione del personale. In un sistema differenziato e autonomo, regolato a distanza dal ministero, i margini di autonomia nella gestione del personale devono ampliarsi, contrariamente a quel che oggi si dice citando lo scandalo del concorso di turno. È sensato celare dietro il velo del concorso pubblico (magari lungo e farraginoso, ad anni alterni bloccato dallo Stato…) quella che, in tutto il mondo, è una cooptazione? Occorre invece andare nella direzione della tenure track, abbassando l’età media per l’accesso al ruolo e favorendo meccanismi di differenziazione anche a livello di retribuzione dei docenti e dei ricercatori. Soprattutto, come sostiene Giliberto Capano, occorre rivedere profondamente il rapporto tra attività professionali esterne e attività di docenza e di ricerca.
5. Occorre infine ripensare radicalmente al diritto allo studio (che, attualmente, rispecchia i caratteri di uniformità e di rigidità propri dell’intero sistema universitario) individuando i livelli essenziali delle prestazioni che competono allo Stato e favorire la differenziazione degli strumenti e degli importi erogabili in base al territorio.
Tutto questo occorre all’università italiana. Non si realizzerà in un giorno e neppure in un anno. Bisognerà, anzi prevedere, una fase transitoria di quattro o cinque anni di passaggio graduale dalla situazione attuale a quella individuata come obiettivo finale. Diversamente, in mancanza di una visione ampia e strategica di sviluppo dell’intero sistema, l’università italiana sarà destinata ad un lento e inesorabile declino.