Non stupisce il fatto che la bozza di Regolamento relativa alla formazione iniziale dei docenti accomuni il percorso di formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia a quello dei docenti della scuola primaria. Diverso il discorso invece sulla quantità esorbitante di ‘discipline’ che i docenti dovrebbero apprendere per essere pronti all’insegnamento: quando la cultura professionale è concepita come enciclopedismo viene svilita e non centra il bersaglio.
Il professionista che ha a cuore lo sviluppo integrale dei soggetti a lui affidati, soprattutto nella scuola dell’infanzia, non è connotato unicamente da competenze ‘disciplinari’, ma anche da altre competenze che gli consentano di essere promotore di apprendimento nella sua accezione più ampia.
Pensando alla scuola dell’infanzia, per troppo tempo caratterizzata da una funzione ‘preparatoria’ alla scuola primaria o come allungamento del contesto ‘familiare’, è spontaneo chiedersi quali siano i must che connotano la sua funzione educativa. Coerezza ha giustamente individuato i pilastri della scuola del’infanzia nella cura, nel gioco e nella capacità di lavorare su tempi e spazi. Aggiungendo la comunicazione verbale e non verbale ad integrazione dell’elenco delle caratteristiche, si deve però sottolineare che tali caratteristiche prendono significato dalla funzione educativa che si attribuisce alla scuola dell’infanzia.
Esemplificando. Si afferma da più parti l’educazione come esperienza. Tale concetto è presente in due autori apparentemente lontani tra loro quali Romano Guardini e John Dewey per i quali non c’è vera educazione se non è reale “esperienza”, cioè rapporto vivo e significativo con le cose, gli avvenimenti e le persone, cioè a dire con la realtà. Se si assumono determinati connotati di ‘esperienza’ si dà significato alle finalità della scuola dell’infanzia che possono essere riassunte in
Costruire la propria identità
Dare un nome alla realtà
‘ordinare’ e nominare la propria esperienza pregressa ed in atto
Riconoscere l’altro come ‘prezioso’ da rispettare ed opportunità per sé.
Allora i pilastri correttamente individuati da Coerezza diventano “strumenti” per offrire al bambino occasioni di crescita, ma vanno conosciuti e ri-conosciuti nella loro potenzialità educativa. Se è vero, come sostiene una ricercatrice statunitense, che attività ricreative libere e non strutturate sarebbero da preferire ai metodi tradizionali di apprendimento e ad un’alfabetizzazione troppo precoce, è altrettanto vero che il ‘gioco’ va conosciuto e ‘posseduto’ dall’insegnante in tutta la sua potenzialità formativa a tutto tondo. Termini come osservazione, interazione verbale tra pari, relazionalità simmetrica ed asimmetrica tra pari e con adulti, compaiono spesso nella letteratura relativa alla scuola dell’infanzia, ma poco vengono collegate al gioco, strutturato o spontaneo.
Simili consapevolezze ed una buona padronanza degli ‘strumenti’ educativi dovrebbe scaturire da una formazione iniziale che, unitamente a ‘conoscenze’ psicopedagogiche importanti ed essenziali, dovrebbe offrire occasioni di ‘sensate esperienze’ (Galileo) ai docenti. Tali occasioni potrebbero accadere durante il tirocinio che deve diventare un’opportunità di misurarsi sul campo, perseguendo esso almeno tre obiettivi sulla formazione dei docenti:
Imparare ad essere consapevoli della portata educativa del proprio agire e degli ‘strumenti’ del mestiere,
Imparare a riflettere sull’azione intrapresa a partire da un’ipotesi educativa, acquisire il distanziamento dall’azione per riflettere, capire, rielaborare,
Imparare una competenza comunicativa-relazionale come adozione di uno stile aperto e collaborativo nei confronti degli adulti educatori, anche attraverso l’ascolto attivo e la disponibilità al dialogo.
Tutto ciò porta ad auspicare un aumento quantitativo del tirocinio previsto dalla “bozza Israel”, nonché un’organizzazione del tirocinio stesso che ponga il docente nell’agone scolastico come protagonista guidato (dal tutor?) perché le competenze fondamentali di un educatore si ‘imparano’ e/o si sviluppano in un’azione in contesti di realtà. L’esito del tirocinio potrebbe non essere più una tesina su un determinato argomento, ma la progettazione di un percorso didattico e la verifica/valutazione dello stesso, a fronte dell’attuazione del percorso in una classe/sezione. Si svilupperebbe così nel docente la capacità di auto-osservazione all’interno di una pratica di ricerca-azione che richiede un’indagine riflessiva sul proprio operato mediante la sinergia di teoria e pratica.
In tal senso la figura del tutor (magari più di uno) va rivista e precisata. Perché non concepire il tutor come l’“esperto” che, in un processo di ricerca-azione, aiuta il docente in formazione a pianificare strategie di intervento, fare, riflettere sul fare con tutti gli attori dell’azione didattica educativa, quindi riprogettare, in una situazione reale (contesto d’aula)?
In fondo anche tra gli insegnanti in servizio non mancano le esperienze, bensì una guida che orienti la riflessione sull’agito e il vissuto per riconoscere questi come ‘sensate’ esperienze, cioè cariche di ‘senso’ per il proprio essere ed agire professionale. Con, a monte, un’intenzionalità educativa chiara e precisa nelle sue finalità.