Nel dibattito interno al gruppo tecnico di lavoro per il riordino degli istituti tecnici, alcuni dei dirigenti hanno fatto presente la difficoltà aggiuntiva di attuare una riforma nelle loro scuole, stante la particolare composizione del corpo docente, in cui sono presenti un buon numero di insegnanti tecnici nominalmente a tempo pieno, ma che di fatto svolgono un’attività professionale per cui l’insegnamento è un doppio lavoro da sbrigare magari coscienziosamente, ma nel minor tempo possibile.



Il mio punto di vista è che questi insegnanti, correttamente impiegati, non solo non sono un peso o un ostacolo, ma sono una risorsa fondamentale per l’istruzione tecnica, perché costituiscono – o dovrebbero costituire – il ponte privilegiato fra i ragazzi e il mondo del lavoro. Chi meglio di un ingegnere o di un architetto – di un bravo ingegnere o di un bravo architetto professionista – può spiegare ai ragazzi dell’istituto per geometri le tecniche costruttive? E quale cattedratico è in grado di spiegare le dinamiche dei siti web meglio di chi le costruisce per lavoro? Il problema è, ancora una volta, l’ossessione per l’uniformità che governa la scuola italiana, e in particolare le politiche per il personale docente, che considerano tutti i docenti uguali per tipo, quantità e qualità di prestazioni: gli insegnanti a tempo parziale “dichiarato”, pur previsti, sono pochissimi: l’ultimo dato che ho trovato risale al 2005 ed è di poco più di 15.000 docenti su oltre 730.000 docenti a tempo indeterminato o  determinato annuale (meno del due per cento).



In altri paesi, il contributo dei professionisti nella scuola tecnica è considerato prezioso proprio in quanto professionisti, e la loro presenza può essere anche solo per poche ore la settimana, o in moduli più flessibili dedicati a temi specifici: non si fa finta che siano tutti insegnanti a tempo pieno. Se anche in Italia le scuole potessero utilizzare come docenti a contratto professionisti e persone qualificate del mondo del lavoro (non è da escludere che le imprese li mettano a disposizione senza costi aggiuntivi), si potenzierebbe quel legame con il territorio che a parole costituisce uno degli obiettivi della scuola autonoma, e si potrebbero valorizzare risorse notevoli oggi sprecati: si pensi alla possibilità di utilizzare nell’istruzione tecnica e professionale, oltre che nella formazione regionale e nell’apprendistato, lavoratori esperti che magari finiscono in prepensionamento o in cassa integrazione.



Non so se i sindacati, sempre all’erta rispetto alla presunta perdita di posti di lavoro, siano favorevoli o ostili a una proposta di questo genere, che se si vuole fa anche emergere situazioni di doppio lavoro oggi farisaicamente etichettate come insegnamento a tempo pieno: certo, sarebbe possibile attuarla positivamente solo nelle scuole in cui esiste una progettazione in grado di contestualizzare i contributi per quello che possono dare, e che non può essere considerato pari a quello che viene richiesto ad un docente a tempo pieno regolarmente inquadrato, che resta responsabile del piano dell’offerta formativa della scuola. Approfittando della fase di transizione che l’istruzione tecnica e quella professionale si potrebbe valorizzare l’autonomia delle scuole, o delle reti di scuole, per sperimentare questa forma di impiego, che potrebbe ridurre il costo della didattica senza ridurne la qualità.