Nel dibattito sulla formazione iniziale dei docenti è importante soprattutto non sprecare l’occasione di riflettere bene su che cosa sia un insegnante, su che cosa contribuisca a fare di un uomo un buon insegnante.
La prima cosa da rilevare è che “l’insegnante” come modello unico non esiste, semplicemente perché non imparano nello stesso modo il bimbo di 4 anni, la ragazzetta di 10 anni e il giovanotto di 17 anni. Non si tratta di gradi di un’unica forma di sapere, sono proprio forme e modi diversi di imparare, in quanto messi in atto da soggetti diversi. Da questo punto di vista, preparare tutti gli insegnanti secondo un unico modello formativo renderà loro difficile accogliere questo semplice fatto e valorizzarlo all’interno del loro lavoro.
La seconda cosa riguarda l’idea che esista un’unica forma di sapere, quello multi-pluri-inter-disciplinare, che poi viene progressivamente accennato (infanzia), semplificato (primaria), rispiegato in breve (medie), delineato in modo più formale (superiori) e finalmente svelato nella sua pienezza (università): questa idea è ormai praticamente un a priori, straordinariamente tenace, forse comodo, ma in realtà riduttivo e dannoso.
Un settore in cui tutto questo emerge con una certa chiarezza è costituito dai percorsi di Istruzione e Formazione Professionale, seguiti da circa la metà degli allievi italiani, che ci ricordano come la scuola superiore non sia solo “liceo+università”. Facile parlare dei limiti di tanti di questi percorsi. Ma le eccellenze ci sono, eccome.
Tanti allievi, usciti dalla scuola media con il famoso “sufficiente” e fortemente demotivati verso la scuola in quanto tale, in questi percorsi incontrano qualcosa di diverso e, progressivamente, si rimettono ad imparare. Non ripartono perché incontrano una versione impoverita e abbreviata del Sapere Unico, ma perché incontrano qualcos’altro rispetto alla “scuola”. Vengono messi di fronte al lavoro, in istituti e centri che vivono di rapporti con il mondo del lavoro (stage, alternanza, tirocini, inserimenti, ecc.). Con insegnanti che hanno rapporti stabili con aziende e imprese. Non incontrano semplicemente la “messa in pratica” di alcuni saperi disciplinari, ma la realtà lavorativa nella sua irriducibilità.
Gli stage sono inutili? «Solo l’anno scorso abbiamo mandato 400 ragazzi in stage in 320 aziende», ci spiega il prof. Giuseppe Carcano, preside di un ISIS statale di Varese, «il bello è che lì i ragazzi si trasformano, dando il meglio di sé. Lamentele dalle aziende? Pochissime, anzi, spesso sono i ragazzi che vorrebbero lavorare e imparare di più…».
Ma allora serviranno anche insegnanti-tutor che sappiano davvero interagire con le imprese e con il loro mondo. «E anche un orientamento al termine della scuola media che sia più capace di interagire e confrontarsi con la realtà sociale e imprenditoriale del nostro territorio» aggiunge il prof. Carcano.
E gli insegnanti? In questi percorsi di Istruzione e Formazione Professionale l’insegnante-tipo è spesso un ibrido tra la cultura scolastica e la cultura del lavoro. Perché c’è un plus nel lavoro aziendale che un intero percorso accademico non potrà mai dare. Parliamo con Francesco Colombo, 63 anni, da pochi mesi “docente” di Tecnologia Meccanica e Laboratorio presso l’ASLAM di Samarate (Varese) dopo una vita passata a fare l’ingegnere meccanico: «Tante cose le ho imparate da mio padre nella ditta di famiglia: uscito dall’università, quando presentato a lui, che non era neppure laureato, un mio nuovo progetto per una macchina, me l’ha capovolto! In realtà lui sapeva più cose di me…». Ma soprattutto ci racconta di come ha imparato dalla sua famiglia e dal suo lavoro ad amare la vita, fino a maturare la scelta di dedicarsi all’insegnamento. «Ora cerco di insegnare ai ragazzi… che cosa? Prima di tutto, devono saper fare il pezzo. Tutto quello che insegni deve arrivare a quello».
E se la vera scommessa fosse proprio lo stare di fronte a questa semplicissima osservazione fino a farne emergere un nuovo metodo didattico? Un metodo che parta prima dal lavoro (non solo per modo di dire) e poi ne segua passo passo, lealmente, tutte le esigenze, tutte le precondizioni e tutte le implicazioni? Un metodo didattico che inizi col “fare” lavorativo e poi, incontrando/scontrandosi con le mille scoperte, richieste e difficoltà che questo “fare” comporta, delinei un percorso di appredimento nuovo?
Dal lavoro in quanto tale può emergere un modello conoscitivo e didattico? Per alcuni centri di formazione professionale, come il CFP Canossa di Lodi, tutto questo, almeno come tentativo, è già realtà.
Se il lavoro (osservando certa scuola, verrebbe da dire “il mondo là fuori”) è una ricchezza, ne hanno bisogno non solo i nostri allievi, ma anche noi insegnanti. Ci sono “crediti formativi”, preziosi, per entrambi, che si acquisiscono solo così.
Abbiamo accennato a percorsi di istruzione e formazione il cui fondamento è un sapere pratico generatore esso stesso di teoria e che vengono scelti da soggetti che hanno manifestato un’opzione “negativa” (a ragione o a torto) verso la scuola come “forma”: una dignità per questi percorsi (e per i loro utenti) non si troverà mai riproponendo semplicemente una declinazione “debole” della stessa forma-scuola riconosciuta come unica possibile.
Se la “bozza Israel” sarà in grado di accogliere e di valorizzare queste “diversità”, sarà senz’altro la benvenuta; se invece riproporrà sostanzialmente il modello unico di sapere oggi imperante, non sarà certo di aiuto per superare l’impasse in cui la scuola italiana (più o meno coscientemente) si trova da tempo.