Se e quanto valga la pena insegnare ancora le lingue classiche nelle nostre scuole è questione di cui si dibatte da decenni. Ma tale discussione raramente si confronta con l’unico dato che dovrebbe essere alla base di tutto: quanto i ragazzi che fanno studi classici apprendono realmente il latino e il greco? Esiste o no un modo per insegnare le lingue classiche in maniera tale che gli studenti possano accedere direttamente ai testi originali latini e geci? Ebbene sì, il metodo c’è: è il “metodo natura”, per cui, semplificando al massimo, il latino e il greco vengono insegnati un po’ come si insegna l’inglese. Cioè come una lingua viva.



Luigi Miraglia è il presidente dell’Accademia Vivarium Novum, che si occupa della diffusione, in Italia e all’estero, di questo metodo di insegnamento. Che è non solo rappresentativo di una didattica efficace e responsabile, ma è anche forse il modo con cui si stanno salvando le lingue classiche da un continuo e inarrestabile declino.



Professor Miraglia, si ha l’impressione che oggi l’insegnamento delle lingue classiche in Italia venga trascinato come un retaggio del passato. Lei come giudica complessivamente l’insegnamento del latino e del greco nel nostro Paese?

La questione delle lingue classiche in Italia, e in una certa misura anche in altri Paesi d’Europa, ha radici storiche profonde, che risalgono almeno alla fine del Settecento. Furono già personaggi come Federico Augusto Wolf e Guglielmo von Humboldt che inventarono la Formale Bildung e teorizzarono così lo studio del latino come «mezzo migliore per esercitare determinate facoltà dell’anima». In Italia questa impostazione, che generò il metodo grammaticale-traduttivo per lo studio delle lingue classiche, entrò più tardi, e per un certo periodo resistette il sistema didattico umanistico. Ma dopo il 1860, anche per motivi ideologici, il “metodo scientifico” fu introdotto con forza; e i risultati furono sin dall’inizio disastrosi. Già nel 1894 il ministro Marini si vide costretto a convocare una commissione per verificare i risultati della nuova metodologia: il presidente di quella commissione, Giovanni Pascoli, diede un giudizio pesantissimo, ma ciononostante l’ideologia ebbe la meglio e si continuò a insegnare in quel modo. Per tutto il secolo scorso la situazione si è protratta, fino al punto in cui si è arrivati a parlare del nuovo metodo come del “metodo tradizionale”.



Quali sono gli effetti negativi di questo metodo di insegnamento?

Del metodo attualmente prevalente nella scuola italiana direi che sarebbe appropriato esclamare con Seneca: Utinam tantum non prodesset: nocet! I ragazzi imparano a odiare d’un odio implacabile la grammatica, le versioni faticosamente decifrate, gl’incomprensibili classici di cui han dovuto senza frutto mandare a memoria una traduzione raccattata nel mare di note pletoriche e indigeribili. Anche lo studio della letteratura, in questa situazione, si riduce spesso alla ripetizione delle opinioni di altri su stile, uso della lingua, effetti retorici: perché il povero alunno, che del testo non comprende nulla, e che spesso non legge (o meglio, non ‘decodifica’) che poche righe, non ha nessun elemento per un meditato e, per quant’è possibile, autonomo giudizio critico. Il rischio grave è anche che si crei una sorta di selezione al contrario: un metodo tutto deduttivo rischia di favorire e porre ai primi posti quel tipo d’alunno che esegue passivamente gli ordini; mentre vien penalizzato il ragazzo di giudizio indipendente e libero, amante della realtà presente e viva. Non che non siano da lodare l’impegno assiduo, la capacità di dominio di sé stessi, l’esercizio delle facoltà razionali; ma mi sembra paradossale che, nello studio delle lingue classiche, siano quasi da vituperare, come se fossero una colpa, e non una virtù, la brillantezza dell’ingegno e la voglia d’unire verba e res, concetti, idee e azione.

Veniamo alla pars construens: l’Accademia Vivarium novum, da lei presieduta, diffonde in Italia l’insegnamento del latino e del greco tramite il “metodo natura” del danese Hans Ørberg: qual è sinteticamente il principio alla base di questo metodo d’insegnamento?

Il “metodo natura”, applicato dall’Ørberg al latino e, per quanto m’è stato possibile, da me stesso al greco, non è un’invenzione recente: è in realtà il metodo ‘diretto’ o ‘induttivo’ che in larghissima misura era utilizzato nelle scuole umanistiche e postumanistiche, come ho detto sopra, fino almeno alla fine del Settecento in tutt’Europa. Esso parte da contesti significativi, all’inizio costruiti ad hoc, in seguito originali, che presentino ordinatamente disposti lessico, morfologia e sintassi da apprendere, con numerosi esempi inseriti all’interno d’una storia continua e coinvolgente, che funga da sostegno mnemonico e da elemento di motivazione per l’apprendimento: nel primo volume di latino quasi un “romanzo”, con le vicissitudini d’una familia romana del II secolo d. C. I testi sono per se illustrati: non più dunque l’‘enigma della traduzione’, ma pagine di volta in volta adatte al livello di competenze che l’alunno ha acquisito, perché egli possa comprenderle immediatamente, senza bisogno di portarle necessariamente nella propria lingua. L’alunno esce quanto meno possibile dalla lingua che studia, e porta alla coscienza, con spiegazioni dettagliate e ordinate, quanto riscontrato nei testi, solo dopo averne visto il funzionamento pratico in un testo o in esempi che gli siano comprensibili. In questo modo s’assimilano in tempi assai brevi morfologia, sintassi e lessico, che s’imparano a padroneggiare e a riconoscere senza esitazione nelle opere degli autori. La vox maiorum giunge così alle orecchie dei ragazzi della nostra epoca, che dialogano con Cicerone, Seneca, Sallustio e Virgilio, non più indegnamente ridotti a indigesti esercizi di logica o di enigmistica.

Quindi si sentirebbe di sconsigliare quello che, erroneamente, viene chiamato “metodo tradizionale” e di raccomandare questo metodo di insegnamento?

Premesso che credo fortemente nella libertà d’insegnamento e nell’autonomia di scelta dei metodi che non possono essere imposti a nessun insegnante, mi permetto, sulla base dell’esperienza mia stessa e su quella di moltissimi docenti di tutta l’Italia e d’altre parti del mondo, di raccomandare questo sistema didattico. Se l’altro metodo abbia mantenuto o meno le sue promesse di ‘formazione della mente’ e di ‘sviluppo della logica’ lo giudicheranno altri: per me, che credo non possa esistere altra ragione per difendere lo studio del latino nelle scuole se non quella semplicissima che esso è la lingua che ci consente d’accedere a un immenso patrimonio di testi antichi, medievali, umanistici e postumanistici, la questione, che pure è stata analizzata, non ha grande importanza. Il latino è la chiave di tutta la cultura europea: letteraria, giuridica, filosofica, storica, teologica, scientifica, antropologica, di conoscenza di sé e delle altre civiltà; ma tutti i tesori ch’esso può dischiudere rimangono ben custoditi nelle arche e cassaforti delle opere che ce li hanno tramandati, se non si possiede la lingua al punto di poter leggere correntemente interi libri, di autori come Erasmo, Copernico, Spinoza. Il metodo grammaticale-traduttivo, per la sua stessa impostazione, questo non lo permetterà mai. Il metodo induttivo, invece, non solo lo ha consentito a generazioni di studenti per secoli, ma, dovunque è applicato con rigore e professionalità, dà risultati assai confortanti anche oggi.

Il passaggio dal metodo deduttivo a quello induttivo (non solo per le lingue classiche, ma anche per l’italiano e tutto l’ambito matematico-scientifico) può essere una risposta di carattere generale al problema del rendimento dei nostri ragazzi?

Il metodo induttivo è senz’altro più coinvolgente e può costituire uno stimolo per superare le difficoltà più ostiche e suscitare interesse nei giovani anche in ambito scientifico-matematico. Non vorrei però che si confondesse con una certa faciloneria e un certo vuoto pedagogismo che sta da alcuni anni infettando la scuola italiana, con la retorica del ‘fare’, dell’‘operatività’, della ‘manualità’. La vera finalità che un qualunque formatore deve porsi è condurre gradualmente i propri alunni a sviluppare capacità d’astrazione che gli permettano di svincolarsi dai singoli fatti per ricavarne ragionamenti, concetti, argomentazioni, persino leggi che valgano in maniera più generale, e non siano legate al caso particolare: è questa l’unica via per non essere assoggettati al flusso irrefrenabile delle mode, del caleidoscopico cambiamento, del pensiero dominante. Non dobbiamo dimenticare quel rischio che già avevano previsto Aldous Huxley e Ray Bradbury: il rischio cioè di trasformare, attraverso insulse teorie del nulla, i nostri ragazzi solo in bipedi ammaestrati, e non in esseri pensanti. Ecco quel che temo: che non ci si limiti semplicemente a partire dal dato particolare per arrivare all’universale, ma che si rimanga ancorati al singolo fatto sensibile, inebetendo la capacità d’astrazione.

Cosa ne pensa della proposta, avanzata da più parti, di rendere sempre più opzionale l’insegnamento delle lingue classiche? Sarebbe un incentivo a studiarle meglio, o sarebbe un passo verso la dimenticanza totale del latino e del greco?

Credo che rendere opzionali il latino e il greco sarebbe un grave errore, e questo per diversi motivi, alcuni d’ordine teorico, altri di risvolto pratico. Chi propone questa strada parte naturalmente dall’idea che le lingue classiche siano parte d’un sapere specialistico, riservato a chi voglia dedicarsi a una ricostruzione laboratoriale e “scientifica” del mondo greco e romano. Il latino permette invece di accedere al nostro patrimonio secolare, e ci permette di leggere non solo Cicerone o Seneca, ma Aelredo e Abelardo, Bartolomeo de Las Casas e Newton, Enea Silvio Piccolomini e Pico della Mirandola, Erasmo e Galileo. Credo che non vi possa essere consapevolezza storica della professione che s’esercita e della materia che si studia se non attraverso quell’integros accedere fontes che, solo, ce la rende possibile. Per me la questione sta solo nei metodi: perché è ovvio che se uno studia cinque anni per quattro o cinque ore la settimana una lingua, e poi non sa leggere neanche i Vangeli, allora non c’è ragione perché questo sperpetuo sia trascinato avanti. Ma se si dimostra che in soli due anni i ragazzi possono esser messi in condizione di leggere e gustare buona parte della millenaria produzione latina, credo si debba convenire che per l’acquisizione d’uno strumento di tale portata culturale valga la pena d’impiegare un tempo ragionevole nel curriculum scolastico.

E quali sono invece le motivazioni d’ordine pratico che sconsigliano di rendere solo opzionali le lingue classiche?

Dal punto di vista pratico, ritengo che renderle opzionali sarebbe una sciagura: ho potuto bene analizzare la situazione delle scuole francesi e, in parte, di quelle inglesi, dove, ormai da tempo, il latino è facoltativo e il greco è pressoché scomparso. Ora, a parte l’effetto disastroso sulla società (mentre da noi ogni bancarella di periferia è ancora piena di edizioni economiche dei classici, a Parigi, e persino a Oxford le edizioni di opere latine e greche son diventate roba da carbonari), sta di fatto che in Francia, per esempio, il professore di latino non può più di tanto pretendere dai suoi alunni, i quali, se diviene più esigente, abbandonano il suo corso e si trasferiscono altrove, lasciandolo senza ‘clienti’ e spesso senza posto di lavoro. Questo tipo di tirannìa influisce assai negativamente sulla qualità dell’insegnamento, che proprio per questo è assai bassa. Il rendere opzionale il latino, insomma, determinerebbe l’effettiva e definitiva sua scomparsa dalle scuole italiane.

(Rossano Salini)