Se e quanto valga la pena insegnare ancora le lingue classiche nelle nostre scuole è questione di cui si dibatte da decenni. Ma tale discussione raramente si confronta con l’unico dato che dovrebbe essere alla base di tutto: quanto i ragazzi che fanno studi classici apprendono realmente il latino e il greco? Esiste o no un modo per insegnare le lingue classiche in maniera tale che gli studenti possano accedere direttamente ai testi originali latini e geci? Ebbene sì, il metodo c’è: è il “metodo natura”, per cui, semplificando al massimo, il latino e il greco vengono insegnati un po’ come si insegna l’inglese. Cioè come una lingua viva.
Luigi Miraglia è il presidente dell’Accademia Vivarium Novum, che si occupa della diffusione, in Italia e all’estero, di questo metodo di insegnamento. Che è non solo rappresentativo di una didattica efficace e responsabile, ma è anche forse il modo con cui si stanno salvando le lingue classiche da un continuo e inarrestabile declino.
Professor Miraglia, si ha l’impressione che oggi l’insegnamento delle lingue classiche in Italia venga trascinato come un retaggio del passato. Lei come giudica complessivamente l’insegnamento del latino e del greco nel nostro Paese?
La questione delle lingue classiche in Italia, e in una certa misura anche in altri Paesi d’Europa, ha radici storiche profonde, che risalgono almeno alla fine del Settecento. La concorrenza del francese come lingua della cultura internazionale, la pressione di alcune frange illuministiche prima, e positivistiche poi, per l’uso dello “scarno e naturale modo di esprimersi” lontano dalla retorica di scuola, il rancore ideologico avverso alla didattica dei gesuiti e di altri ordini religiosi che avevano ereditato metodi d’insegnamento messi a punto dagli umanisti e limati e perfezionati da tanti maestri in più di tre secoli di storia (fino al Comenio e oltre), fecero sì che il ruolo del latino nella formazione dei giovani venisse messo in seria discussione. Personaggi come Federico Augusto Wolf, allora, e Guglielmo von Humboldt inventarono la teoria della Formale Bildung: “Il latino e il greco” dicevano, “non si studiano mica per imparare due lingue: esse sono il mezzo migliore per esercitare determinate facoltà dell’anima, che potranno essere utili in ogni campo della vita: prima di tutte la pazienza, l’acribìa, la capacità d’analisi, la logica. Costituiscono dunque discipline importantissime per la selezione degli uomini adatti ai posti di rilievo nella società, e per sviluppare sempre più in loro determinate attitudini naturali. Se poi essi, attraverso quest’esercizio, impareranno anche un po’ di latino e greco e verranno a contatto con i nobili ragionamenti e la cultura degli antichi, questo sarà un non disprezzabile risultato accessorio.” L’Italia, per le sue particolari condizioni storiche e per l’influenza che in questo esercitò la Chiesa, che deteneva la maggior parte degl’istituti d’istruzione superiore, ritardò l’introduzione del metodo grammaticale-traduttivo figlio della Formale Bildung, ritenendo più a lungo d’altre nazioni il sistema didattico umanistico. Ma già prima dell’unità in molte scuole “d’avanguardia” i “metodi prussiani” cominciavano a penetrare, confortati anche dal grande prestigio che sempre più in tutt’Europa acquisivano la filologia tedesca e i grandi progressi della glottologia, della linguistica comparata, dello studio scientifico delle sintassi latina e greca: nel 1840 uscì in Germania il primo corso di latino impostato secondo questa nuova via docendi, scritto secondo le impostazioni date dall’Ollendorf e dal Plötz; l’Italia cominciò gradualmente a imitarne le impostazioni; dopo il 1860, il “metodo scientifico”, anche per ragioni ideologiche, fu, grazie anche a interventi ministeriali, introdotto con forza; ma i risultati furon sin dall’inizio disastrosi: nel 1894 l’allora ministro Fernando Martini si vide costretto a convocare una commissione per verificare i risultati della nuova metodologia, anche in séguito alle numerose proteste che da più parti si sollevavano per lo scadimento delle competenze linguistiche che i discenti riuscivano a ottenere. Presidente della commissione e materiale estensore della relazione sulle indagini compiute fu Giovanni Pascoli; membri ne furono alcuni fra i più illustri studiosi dell’epoca, ivi compreso quel Girolamo Vitelli, strenuo difensore della filologia tedesca, che non può certo esser sospettato d’avere avuto in antipatia i prodotti della cultura germanica. Ma la Commissione fu costretta a rilevare un forte calo dell’apprendimento nei giovani alunni anche dei licei: “La grammatica” scrisse allora tra le altre cose il Pascoli, “si stende come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! de’ quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio.” Nonostante questo severo giudizio, però, la convinzione ideologica era così forte, che nulla cambiò, anzi, si ritenne, contrariamente alle indicazioni della Commissione e dello stesso Pascoli (il quale, anche privatamente, tentò di convincere il ministro a imboccare altre strade), di dovere intensificare lo studio astrattamente grammaticale, imputando a un rilassamento della disciplina lo scadimento dei risultati. Ma le cose andavano sempre peggio, tanto che nel 1905, dopo undici anni, il Ministero si vide costretto a convocare una nuova Commissione; la quale, però, riferì dati ancor più sconfortanti della prima: “Il metodo adotttato nelle scuole italiane per l’insegnamento delle lingue classiche” scrissero gli estensori della relazione, “è il più difficoltoso e il meno redditizio; serve poco alla conoscenza della lingua, serve anche meno alla conoscenza dello spirito letterario.” Ma neanche allora si ripensò complessivamente alla maniera d’insegnare il latino e il greco. Nel frattempo, lentamente, scomparivano tutti coloro che avevano insegnato, e, pian piano, anche quelli che avevano imparato il latino con altri metodi: finché si perse anche la memoria d’un altro sistema, e quello grammaticale-traduttivo, cioè il più recentemente introdotto, incredibilmente, divenne “il metodo tradizionale”. Quest’aggettivo, che, come scrisse il Pasquali “risparmia la fatica di pensare”, costituì il lasciapassare dei sistemi più assurdi e meno adatti a insegnare una lingua agli adolescenti; coi risultati che tutti conoscono. Certo, la retorica fascista, che conferiva al latino e alla cultura classica in generale un grande prestigio sociale, e l’enorme carico di ore dedicate a questa materia (addirittura sin dalla quarta elementare, con le “nozioni d’analisi logica preparatorie allo studio della lingua latina”!) davano agli alunni del ventennio e anche a quelli che vennero sùbito dopo la guerra, qualche stimolo e qualche possibilità in più d’apprendere la lingua di Roma e della cultura europea rispetto ai ragazzi di oggi. Ma comunque i risultati erano in realtà assai scarsi: lo denunziarono con parole durissime il Pighi, il Pieraccioni e moltissimi altri che certo non potevano esser sospettati d’aver in odio la grammatica storica, ma che comprendevano assai bene che fra la descrizione scientifica d’una lingua e la maniera più efficace per farla apprendere a dei ragazzini c’è un abisso. Oggi, la diminuzione del prestigio sociale delle discipline umanistiche, la trasformazione antropologica delle nuove generazioni di studenti, la riduzione degli orari dedicati alle lingue classiche nelle scuole e mille altri motivi, rendono davvero improponibile la sterile ripetizione di formule vuote e stantìe, che purtroppo, invece, ancora vengono senza forza alcuna reiterate come un ritornello da chi non sa, in realtà, a cosa appigliarsi per difendere uno studio destituito da ogni fondamento.
Quali sono nel dettaglio gli effetti negativi del metodo di insegnamento “grammaticale-traduttivo”?
La verità è che i ragazzi il latino e il greco nelle scuole perlopiù non lo imparano; ma del metodo attualmente prevalente nella scuola italiana direi che sarebbe appropriato esclamare con Seneca: Utinam tantum non prodesset: nocet! I ragazzi imparano a odiare d’un odio implacabile il caecus et inextricabilis error della grammatica, delle versioni faticosamente decifrate, degl’incomprensibili classici di cui han dovuto senza frutto mandare a memoria una traduzione raccattata nel mare di note pletoriche e indigeribili. Anche lo studio della letteratura, in questa situazione, si riduce spesso, nonostante la grande fatica di molti bravissimi insegnanti, a un mero psittacismo culturale, dove lo studente non può far altro che ripetere le opinioni di altri su stile, uso della lingua, effetti retorici, colore delle frasi, idee espresse attraverso usi particolari della fraseologia, della grammatica, della sintassi: perché il povero alunno, che del testo non comprende nulla, e che spesso non legge (o meglio, non ‘decodifica’) che poche righe, non ha nessun elemento per un meditato e, per quant’è possibile, autonomo giudizio critico. Il rischio grave è anche che si crei una sorta di selezione al contrario: un metodo tutto deduttivo, fatto di analitico sminuzzamento, d’una sorta di microchirurgia di cadaveri da obitorio, d’almanaccamento distillato privilegiante la pazienza ostinata sulla brillante vivacità mentale, rischia di favorire e porre ai primi posti quel tipo d’alunno che, coi denti stretti, come lo Stardi di deamicisiana memoria, “non parla a nessuno, non gioca con nessuno, è sempre lì al banco coi pugni alle tempie, fermo come un masso”, e grazie alla sua tenacia non aliena da pedanteria o (assai peggio!) all’arrendevolezza passiva pronta a eseguire gli ordini, anche i più ingrati, riesce a trovare il filo d’Arianna per venir fuori dal labirinto; mentre vien penalizzato il ragazzo tutto argento vivo, di giudizio indipendente e libero, amante della vita, della realtà presente e viva, dalla quale appunto è opinio communis siano alieni i doctores umbratici tutti dediti al loro latino e alla muffe grammaticali. Non che non siano da lodare l’impegno assiduo, la capacità di dominio di sé stessi, l’esercizio delle facoltà razionali; ma mi sembra paradossale che, nello studio delle lingue classiche, siano quasi da vituperare, come se fossero una colpa, e non una vrtù, la brillantezza dell’ingegno, l’intuizione immediata, la capacità di aver relazione col mondo e con la vita, la voglia d’unire verba e res, concetti, idee e azione. Oggi poi due ipocrisie sovrastano lo studio, specialmente nel triennio, del latino e del greco. La prima è quella di coloro che sostengono che lo studio dei classici e delle letterature antiche vada svolto su traduzioni; cosa che in realtà già di fatto avviene, perché i ragazzi delle scuole, fatte salve alcune, poche, eccezioni, o ricostruiscono il senso delle pagine d’autore che leggono, raccattando sparsi frammenti nelle note che soffocano i testi, o scrivono la traduzione dettata dall’insegnante e la imparano a memoria, o trovano nell’antologia traduzioni bell’e fatte, magari con un illusorio “testo a fronte”. Non c’è praticamente nessuno, data la distorta forma mentis che in queste discipline s’è da un secolo e mezzo affermata, che legga e capisca direttamente in latino (o in greco) quel che gli scrittori ci han tramandato. Ma l’attuale situazione italiana, benché inquinata da questa finzione o da quest’illusione, difende comunque il principio che una letteratura -specialmente una letteratura in cui, per la tradizione retorica che l’ha modellata e per il concetto negativo di “originalità dei contenuti” che l’ha caratterizzata, la distinzione tra forma e materia è assai più difficile che nelle letterature moderne – non può essere ben compresa e penetrata in testi tradotti, che sono frutto di scelte e di visioni dell’interprete, e dunque giocoforza trascurano aspetti anche importantissimi (per esempio la studiata collocazione delle parole nella frase o la proprietà dei singoli vocaboli) a vantaggio di altri, che non è detto siano di maggior peso, se non nella soggettiva percezione di chi ha tradotto. Il discorso sarebbe lungo, e non est hic locus per approfondirlo. D’altro canto a questa inveterata ipocrisia s’è di recente aggiunta la seconda, ancor più grave: il fatto che unica e sola prova di verifica delle competenze sia la traduzione dal latino (o dal greco) in italiano d’un brano d’autore classico, fa sì che oggi ogni ragazzo, anche nelle prove in classe, possa scaricare la versione che gli serve da un semplice telefonino o da un palmare collegato alla rete, inserendo anche solo una stringa di due o tre parole poste tra virgolette. L’effetto è che i professori e le statistiche del Ministero possono ostentare risultati scritti mediamente di gran lunga superiori a quelli di appena un decennio fa, anche se tutti sanno (ma tacciono!) che essi procedono da una vera e propria frode, e che in nessun modo ad essi corrisponde una sia pur minima competenza linguistica degli alunni.
Veniamo alla pars construens: l’Accademia Vivarium novum, da lei presieduta, diffonde in Italia l’insegnamento del latino e del greco tramite il “metodo natura” del danese Hans Ørberg: qual è sinteticamente il principio alla base di questo metodo d’insegnamento?
Il “metodo natura”, applicato dall’Ørberg al latino e, per quanto m’è stato possibile, da me stesso al greco, non è un’invenzione recente: è in realtà il metodo ‘diretto’ o ‘induttivo’ che in larghissima misura era utilizzato nelle scuole umanistiche e postumanistiche, come ho detto sopra, fino almeno alla fine del Settecento in tutt’Europa. Esso parte da contesti significativi, all’inizio costruiti ad hoc, in seguito originali, che presentino ordinatamente disposti lessico, morfologia e sintassi da apprendere, con numerosi esempi inseriti all’interno d’una storia continua e coinvolgente, che funga da sostegno mnemonico e da elemento di motivazione per l’apprendimento: nel primo volume di latino quasi un “romanzo”, con le vicissitudini d’una familia romana del II secolo d. C. Gradualmente il discente incontra migliaia di vocaboli scelti su base frequenziale, ripetuti a intervalli regolari e in contesti diversi; tutta la morfologia nominale (sostantivi, aggettivi, pronomi, avverbi) e verbale; tutta la sintassi del nome, del verbo e del periodo. I testi sono per se illustrati: non più dunque l’’enigma della traduzione’, ma pagine di volta in volta adatte al livello di competenze che l’alunno ha acquisito, perché egli possa comprenderle immediatamente, senza bisogno di portarle necessariamente nella propria lingua, e perché da esse possa partire per mettere in pratica tutta una serie d’esercizi attivi che gli consentano di trasformare in sucum et sanguinem vocabolario, fraseologia, flessioni, norme e strutture. Gli esercizi vanno dalle domande di comprensione al completamento di spazi vuoti (fill in the blanks), dalla caccia all’errore alla scelta multipla, dalla drammatizzazione al riassunto orale e scritto, dalla composizione guidata all’amplificazione, dalla descrizione d’immagini alla variazione e trasformazione morfo-sintattica, lessicale, fraseologica, stilistica. L’alunno esce quanto meno possibile dalla lingua che studia, e porta alla coscienza, con spiegazioni dettagliate e ordinate, quanto riscontrato nei testi, solo dopo averne visto il funzionamento pratico in un testo o in esempi che gli siano comprensibili. Ogni parola o costrutto nuovo viene illustrato con sinonimi, contrari, circonlocuzioni, derivazioni, immagini. I ragazzi sono coinvolti attivamente nell’apprendimento attraverso una serie di strategie, che, pur avendo come obiettivo ultimo la lettura corrente e non sofferta dei classici antichi, medievali e umanistici, utilizza come mezzo per l’apprendimento la lingua anche nei suoi aspetti produttivi, invitando gli studenti non solo a leggere, ma anche ad ascoltare comprendendo, a scrivere e a parlare in latino. In questo modo s’assimilano in tempi assai brevi morfologia, sintassi e lessico, che s’imparano a padroneggiare e a riconoscere senza esitazione nelle opere degli autori. Lo stesso atteggiamento che il giovane, quando viene ben guidato, assume di fronte ai testi, non è quello di chi deve sciogliere un enigma o risolvere una sciarada attraverso un certosino lavoro d’analisi che penetri nel labirinto della struttura per ricavarne un senso con l’ausilio di ponderosi vocabolari, ma quello di chi si pone in ascolto d’un uomo che ci parla e vuol dirci qualcosa in un dialogo che supera il tempo e lo spazio. La vox maiorum giunge così alle orecchie dei ragazzi della nostra epoca, che dialogano con Cicerone, Seneca, Sallustio e Virgilio, non più indegnamente ridotti a indigesti esercizi di logica o di enigmistica.
Quindi si sentirebbe di sconsigliare quello che, erroneamente, viene chiamato “metodo tradizionale” e di raccomandare questo metodo di insegnamento?
Premesso che credo fortemente nella libertà d’insegnamento e nell’autonomia di scelta dei metodi che non possono essere imposti a nessun insegnante, mi permetto, sulla base dell’esperienza mia stessa e su quella di moltissimi docenti di tutta l’Italia e d’altre parti del mondo, di raccomandare questo sistema didattico per più motivi, dei quali alcuni ho già esposto sopra, altri mi proverò a illustrare brevemente. Prima di tutto, come ho cercato di dire in sintesi, il metodo oggi prevalentemente in uso non è affatto il “metodo tradizionale”, e ha, sin dalla sua prima introduzione, dato cattiva prova di sé per quanto riguarda l’apprendimento della lingua: se abbia mantenuto o meno le sue promesse di ‘formazione della mente’ e di ‘sviluppo della logica’ lo giudicheranno altri: per me, che credo non possa esistere altra ragione per difendere lo studio del latino nelle scuole se non quella semplicissima che esso è la lingua che ci consente d’accedere a un immenso patrimonio di testi antichi, medievali, umanistici e postumanistici, la questione, che pure è stata analizzata, non ha grande importanza. Il latino è la chiave di tutta la cultura europea: letteraria, giuridica, filosofica, storica, teologica, scientifica, antropologica, di conoscenza di sé e delle altre civiltà; ma tutti i tesori ch’esso può dischiudere rimangono ben custoditi nelle arche e cassaforti delle opere che ce li hanno tramandati, se non si possiede la lingua al punto di poter leggere correntemente interi libri (e non faticosamente decifrare dieci righe con l’aiuto d’un ponderoso vocabolario): la Querela pacis d’Erasmo come il Tractatus theologico-politicus dello Spinoza, il De revolutionibus orbium caelestium del Copernico o l’Iter subterraneum di Ludovico Holberg, e mille altri capolavori antichi o più recenti. Ora, il metodo grammaticale-traduttivo, per la sua stessa impostazione, questo non lo permetterà mai. Il metodo induttivo, invece, non solo lo ha consentito a generazioni di studenti per secoli, ma, dovunque è applicato con rigore e professionalità, dà risultati assai confortanti anche oggi. Il problema, a volte, è che s’adottano i libri impostati secondo questo sistema, ma non si sposa pienamente il metodo con cui quei libri andrebbero adoperati. L’Accademia Vivarium novum s’è sforzata di fornire gli strumenti adeguati, realizzando anche un documentario dimostrativo con la partecipazione di ragazzi quindicenni e docenti italiani, cechi, tedeschi, francesi, americani, e pubblicando una Guida assai dettagliata che vien data gratuitamente a tutti gl’insegnanti che la richiedano: ma le abitudini grammaticali sono assai radicate, e troppo spesso s’adopera il materiale dell’Ørberg solo per far traduzioni, magari “all’impronta”, perdendo così tutta l’efficacia e la forza rivoluzionaria del sistema. Comunque, il primo motivo è lapalissiano: si tratta dell’efficacia; con questo metodo il latino e il greco si possono imparare, e assai bene: con l’altro si possono forse sviluppare la pazienza e la capacità d’analisi, ma il latino e il greco non s’apprendono mai, o almeno mai a sufficienza. Il secondo motivo mi pare anche di non trascurabile importanza: col metodo grammaticale-traduttivo la maggior parte degli studenti, anche nei licei classici, e persino quegli studenti che s’appassionano alla storia letteraria, imparano perlopiù a odiare le lingue antiche; col metodo induttivo la stragrande maggioranza degli alunni sperimenta che queste lingue non sono poi così ostiche, che possono essere assai piacevoli, che non è troppo difficile impararle, che si possono amare anche se non si è topi di biblioteca o grammatici affetti da praepostera diligentia.
Il problema del rapporto insegnamento-apprendimento è molto sentito, soprattutto alla luce dei sempre più deludenti risultati della scuola italiana nei raffronti internazionali: in che modo l’esperienza, sua e dell’Accademia, può dare un contributo generale a questo dibattito, che riguarda l’insegnamento di tutte le discipline?
L’Accademia Vivarium novum accoglie ogni anno alcune decine di studenti stranieri provenienti dalle più disparate regioni del mondo: albanesi, bulgari, brasiliani, canadesi, cechi, cinesi, croati, estoni, francesi, inglesi, messicani, russi, slovacchi, spagnoli, statunitensi, tedeschi, ungheresi; ha inoltre contatti continui con istituzioni scolastiche e universitarie del Belgio, della Finlandia, della Grecia, della Svezia, e persino del Senegàl e della Corea. In pochi altri luoghi simili, in Italia almeno, è dunque possibile fare un raffronto abbastanza accurato di metodi, curricula e risultati dei vari sistemi d’istruzione. Certo, in alcuni Paesi europei e in alcune scuole degli Stati Uniti sembra esserci una maggiore preparazione in alcune discipline: gli studenti conoscono mediamente meglio le lingue straniere, sembrano avere una maggiore prontezza nella matematica, sono anche meno digiuni di nozioni d’economia. Spesso sono però privi o assai carenti di una buona conoscenza storica, privilegiano un’analisi di generi letterari spontaneistica o fondata sulle teorie dell’ultim’ora rispetto a una solida conoscenza della temperie in cui le opere nascono e le tendenze si sviluppano; mancano d’una prospettiva d’insieme e si sperdono nel particolare; sono assai deficitari in una sia pur minima conoscenza della storia della filosofia; ancor più di noi sembrano studiare alcune materie solo per un obbligo formale. Le distinzioni da fare sarebbero molte, e non è possibile affrontar qui l’argomento: ma a me sembra che i licei italiani si difendano bene, almeno quanto a programmi e discipline di studio. In Italia dunque, oltre a una difficoltà metodologica, che per il latino mi par essere quella sopra descritta, e che corrisponde all’altra faccia della medaglia, certo non lodevole, d’una però apprezzabile libertà da un’impostazione meramente pragmatista, il problema fondamentale, che Lei pone in termini di “insegnamento-apprendimento”, mettendo il dito nella piaga, è quello del rapporto tra docenti e alunni; è quello non solo della preparazione, ma anche della motivazione e direi quasi della ‘vocazione’ all’insegnamento da parte di molti; honos alit artes, lo sapeva già Cicerone: ma lì dove la propria ars è vilipesa, oltraggiata, offesa, avvilita, mortificata non solo a livello economico, ma anche e soprattutto in termini di rispetto, di prestigio sociale, di apprezzamento, il risultato è quello di gente stanca e demotivata, che trascina le sue giornate vedendo nei ragazzi e nelle loro famiglie solo i propri aguzzini: sogno invece una scuola in cui gl’insegnanti possano con piena dignità guardare agli adolescenti come a persone loro affidate per l’attuazione d’un cómpito alto e nobile, ch’è quello della formazione morale delle coscienze attraverso quanto di bello e grande lo spirito e l’intelligenza umana hanno prodotto nei secoli del loro esistere; allora, e solo allora vibra una corrente di vita nelle nostre aule: allora, e solo allora i ragazzi sentono d’avere davanti non un uomo che tira a campare per sbarcare il lunario, ma un maestro che li aiuta a crescere, rispettando la loro libertà: maestri e allievi che, ‘ciascuno seguendo il proprio nume’, per dirla con Platone, s’indirizzino insieme non verso il ‘particulare’, ma verso un universale al quale aspiri il loro comune anelito. Naturalmente, l’attuale situazione diviene un circolo vizioso: il docente non è riconosciuto nel suo officium fondamentale in una società civile, e dunque davvero non lo compie nella maniera migliore, a meno che non sia animato da un sacro fuoco che a qualcuno vien comunque dato quasi per grazia divina; i ragazzi s’accorgono di questa sua stanchezza, di questa sua estraneità e alienazione rispetto a ciò che fa solo come routine quotidiana, e non lo apprezzano, non lo seguono, non guardano a lui come a un exemplum, o comunque come a qualcuno che possa aiutarli a divenir più consapevoli e capir meglio e con maggiore spirito critico il mondo che li circonda.
Il passaggio dal metodo deduttivo a quello induttivo (non solo per le lingue classiche, ma anche per l’italiano e tutto l’ambito matematico-scientifico) può essere una risposta di carattere generale al problema del rendimento dei nostri ragazzi?
Il metodo induttivo è senz’altro più coinvolgente e può costituire uno stimolo per superare le difficoltà più ostiche e suscitare interesse nei giovani anche in ambito scientifico-matematico. Non vorrei però che si confondesse con una certa faciloneria e un certo vuoto pedagogismo che sta da alcuni anni infettando la scuola italiana, con la retorica del ‘fare’, dell’’operatività’, della ‘manualità’, e simile vana ciancia: lo spostamento del baricentro dell’istruzione superiore solo sull’hic e sul nunc rischia fortemente di svilire la vera finalità che un qualunque formatore deve porsi: quella cioè proprio di condurre gradualmente i propri alunni a sviluppare capacità d’astrazione che gli permettano di svincolarsi dai singoli fatti per ricavarne ragionamenti, concetti, argomentazioni, persino leggi che valgano in maniera più generale, e non siano legate al caso particolare: è questa l’unica via per non essere assoggettati al flusso irrefrenabile delle mode, del caleidoscopico cambiamento, del pensiero dominante. Non dobbiamo dimenticare quel rischio che già avevano previsto Aldous Huxley e Ray Bradbury: il rischio cioè di trasformare, attraverso insulse teorie del nulla, i nostri ragazzi solo in bipedi ammaestrati, e non in esseri pensanti, in quel “cicalante squadrone di scimmie che non dicono nulla, nulla, nulla, ma lo dicono forte, forte, forte” che ci siamo purtroppo assuefatti a vedere nei più diversi programmi televisivi che ci martellano giorno e notte. Bisogna stare attenti a non far sì che l’intera vita divenga solo “una cosa immediata, diretta”, che non sia solo “il posto quello che conta, in ufficio o in fabbrica”, che non avvenga che “il piacere s’annidi ovunque”, che non s’arrivi a chiedersi: “Perché imparare altra cosa che non sia premere bottoni, girar manopole, abbassar leve, applicar dadi e viti?” Ecco quel che temo: che non ci si limiti semplicemente a partire dal dato particolare per arrivare all’universale, ma che si rimanga ancorati al singolo fatto sensibile, inebetendo la capacità d’astrazione; che non si pensi solo a render più viva e vitale la trasmissione del sapere o la maieutica azione dell’insegnante, ma che si venga risucchiati dalle sabbie mobili dell’’ora’ e dell’’adesso’, e si viva immersi nel divertimento (in senso etimologico) d’una palude vasta, limosa, fetente che ci guardi col suo crudele sogghigno.
Cosa ne pensa della proposta, avanzata da più parti, di rendere sempre più opzionale l’insegnamento delle lingue classiche? Sarebbe un incentivo a studiarle meglio, o sarebbe un passo verso la dimenticanza totale del latino e del greco?
Credo che rendere opzionali il latino e il greco sarebbe un grave errore, e questo per diversi motivi, alcuni d’ordine teorico, altri di risvolto pratico. Chi propone questa strada parte naturalmente dall’idea, sviluppatasi a partire dalla nascita dell’Altertumswissenschaft, che le lingue classiche siano parte d’un sapere specialistico, riservato a chi voglia dedicarsi a una conoscenza quasi archeologica dell’antico, a una ricostruzione laboratoriale e “scientifica” del mondo greco e romano, delle letterature e del materiale anche epigrafico e papirologico a noi di quelle lingue pervenuto. È la contraddizione apparente che la Formale Bildung portava in sé stessa, ma che in realtà rimane coerente con gli assunti della “scienza dell’antichità”: finché è stato possibile, s’è difeso lo studio delle lingue non come tali, ma solo come “palestra di logica, di pazienza, d’analisi”: se esse son morte come morto è il mondo che le utilizzava, se son distanti e separate da noi, se tutto dev’esser teso a sottolinear le differenze che da quel mondo ci separano ben più degli elementi costitutivi dell’essere umano che agli uomini di quel mondo ci accomunano, non c’è ragione, se non per uno specialistico sapere, d’impararle veramente. Non è un caso che il Wolf ponesse al 1453, alla caduta cioè di Costantinopoli e dell’Impero Romano d’Oriente il terminus ultimus oltre il quale non deve spingersi lo studioso del latino e del greco: e i suoi epigoni hanno arretrato di molto quella data, fino all’assurdo dell’Oxford Latin dictionary che, per un motivo o per un altro, comunque non registra nessun lemma d’autore latino posteriore al terzo secolo, col risultato che non solo Boezio, Beda, S. Bernardo, o Petrarca e giù di lì, ma persino S. Ambrogio o S. Agostino non sarebbero scrittori latini degni di nota. Crollato il mito della formatività logica, o perlomeno vistosi che tale risultato poteva ottenersi anche con lo studio d’altre discipline più ‘spendibili’ in termini anche pratici, ecco che si giunge alla naturale conclusione: il latino e il greco vanno riservati, come si leggeva nella “bozza Maragliano”, a un curricolo destinato ai ‘futuri antichisti’. Scrisse bene allora il Ferroni: “i latinisti in una riserva”, rinchiusi come gl’indiani nelle pianure del Montana o del Wyoming. Io credo invece che accedere al nostro patrimonio secolare, poter leggere non solo Cicerone o Seneca, ma Aelredo e Abelardo, Bartolomeo de Las Casas e Newton, Enea Silvio Piccolomini e Pico della Mirandola, Erasmo e Galileo sia non solo diritto, ma anche dovere d’ogni uomo che voglia alimentare l’animo suo di nobili ragionamenti e luminosi stimoli della mente; credo che non vi possa essere consapevolezza storica della professione che s’esercita e della materia che si studia se non attraverso quell’integros accedere fontes che, solo, ce la rende possibile: che non è possibile acquisire tale consapevolezza nel campo del diritto, se non si nutre il pensiero giuridico del confronto con il Cuiacio, col Duareno, col Gravina e col Vico; che non è possibile nel dominio nelle scienze, se non si riflette sul proprio metodo col Bacone, col Cardano, col Gauss; che non può realizzarsi nella medicina senza conoscere Guglielmo Harvey o Giovanni Caldano; che non è possibile, insomma, rinunziare alla prospettiva storica di qualunque disciplina si professi; che in particolare le discipline morali, civili, politiche, estetiche non possono prescindere da un serrato confronto con coloro che ci han preceduti e rispetto ai quali noi siamo posteri, cioè viandanti che vengon dietro e seguono in parte le orme di coloro che ci han preceduti o scelgono d’esplorare altre strade: perché entrare nelle corti degli antichi huomini non significa proporli a modello da adorare acriticamente: ma significa uscire dal conformismo, guardare le cose anche da una prospettiva diversa da quella presente, far sì che il loro pensiero, lungi dall’esser per noi norma, divenga germe e seme, come bellamente diceva Taddeo Zielinski, pronto a dar nuovi frutti adatti al terreno della nuova epoca e delle sfide della modernità. Per me la questione sta solo nei metodi: perché è ovvio che se uno studia cinque anni per quattro o cinque ore la settimana una lingua, e poi non sa leggere neanche i Vangeli, allora non c’è ragione perché questo sperpetuo sia trascinato avanti. Ma se si dimostra, come credo il documentario La via degli umanisti, per esempio, dimostri ampiamente, che in soli due anni, stimolando più la libera curiositas che non fondandosi su di una meticulosa necessitas, i ragazzi possono esser messi in condizione di leggere e gustare buona parte della millenaria produzione latina, si debba convenire che per l’acquisizione d’uno strumento di tale portata culturale valga la pena d’impiegare un tempo ragionevole nel curriculum scolastico.
E quali sono invece le motivazioni d’ordine pratico che sconsigliano di rendere solo opzionali le lingue classiche?
Dal punto di vista pratico, ritengo che sarebbe una sciagura: prima di tutto i metodi attualmente perlopiù in uso sarebbero un fortissimo deterrente non per chi non sia interessato o portato per le discipline umanistiche, ma per chiunque non sia disposto a sopportare almeno due anni in cui, tra eccezioni e controeccezioni, tra astratti pedantismi e soffocanti memorizzazioni, viene edotto del fatto che “i sogni dei cani son spesso sogni di pani” o che “le ancelle portano le rose sugli altari di Minerva e di Diana”, per continuare poi per altri tre anni in cui anche le pagine più alte della letteratura mondiale non sono altro che un pretesto per ripetere la consecutio temporum o la costruzione del cum col congiuntivo. E questa selezione iniqua, ignobile e prepostera è proprio quello di cui meno c’è bisogno nella scuola italiana. In secondo luogo conosco di persona e ho potuto bene analizzare la situazione delle scuole francesi e, in parte, di quelle inglesi, dove, ormai da tempo, il latino è facoltativo e il greco è pressoché scomparso. Ora, a parte l’effetto disastroso sulla società (mentre da noi ogni bancarella di periferia è ancora piena di edizioni economiche dei classici, a Parigi, e persino a Oxford le edizioni di opere latine e greche son diventate roba da carbonari), sta di fatto che in Francia, per esempio, il professore di latino non può più di tanto pretendere dai suoi alunni, i quali, se diviene più esigente, abbandonano il suo corso e si trasferiscono altrove, lasciandolo senza ‘clienti’ e spesso senza posto di lavoro. Questo tipo di tirannìa influisce assai negativamente sulla qualità dell’insegnamento, che proprio per questo è assai bassa (a proposito: mi son sempre chiesto se quelli che fanno le statistiche sul rendimento delle scuole europee abbiano mai fatto un giro nelle classi di latino o di storia di altri Paesi d’Europa o d’America…). Il rendere opzionale il latino, insomma, nonostante il coro di sfiduciati pronti solo a geremiadi da un lato, e di pseudoprogressisti pronti a scodinzolare alla moda o al padrone di turno dall’altra, o anche di più oneste, ma meno avvedute e civilmente impegnate Vestali del fuoco dell’antico riservato solo agl’iniziati, produrrebbe solo una calamità, una sciagura sociale; determinerebbe l’effettiva e definitiva sua scomparsa dalle scuole italiane, con nostro eterno disdecoro e vergogna. Questo a meno che l’imprevisto e sempre più forte richiamo identitario che si fa largo in uno strano connubio tra nobili idee e loschi fanatismi faziosi, non s’affermi in maniera prepotente e porti famiglie e studenti alla ricerca di qualcosa che lo soddisfi; come sembra stia già avvenendo oltreoceano e in alcune nazioni d’oltralpe.
(a cura di Rossano Salini)