Eppure si muove. Da qualche tempo a questa parte, nel nostro paese, l’equazione tra madri lavoratrici e asili nido non regge più. Dopo anni nei quali la conciliazione tra famiglia e lavoro è stata identificata pressoché in toto con la moltiplicazione delle strutture di assistenza alla prima infanzia, preferibilmente pubbliche, oggi una serie di segnali indicano la presa di coscienza da parte delle donne che le ricette per risolvere il problema sono molteplici, e non passano necessariamente per la delega dell’allevamento dei figli.



Le madri che vogliono poter occuparsi personalmente dei loro bimbi, almeno nei primi anni di vita, sono sempre di più: la parola chiave per esaudire il loro desiderio è “flessibilità”. Vanno letti in questo senso dati come quelli emersi dall’indagine ISFOL, pubblicata in coincidenza con la scorsa festa della mamma e dedicata alle donne tra i 25 e i 49 anni “inattive” (che non sono occupate né alla ricerca di un’occupazione). Secondo la ricerca, le neomamme escono dal mercato del lavoro, in molti casi per non farvi più ritorno: il loro tasso di occupazione passa dal 57,2 al 48,4%; aumenta di poco, fino ai 15 anni del figlio, passando al 56,2%, ma resta poi ancorato al 56%, segno – dicono i ricercatori – che dalla maternità in poi queste donne non hanno più lavorato. Ma a parte le evidenze già tristemente note, il dato più interessante della ricerca è quello relativo alle richieste delle donne per agevolare la conciliazione: le intervistate chiedono in maggioranza tempi di lavoro più flessibili (35,8%), maggiore condivisione nel lavoro familiare (25,9%), e solo in via secondaria l’aumento dei servizi per l’infanzia (18,1%).



La flessibilità è in cima ai desideri anche per quanto riguarda il selezionato gruppo delle madri più “tecnologicamente avanzate”. Le centinaia di mamme-blogger che sabato 23 maggio hanno dato vita all’iniziativa “MaM 2009”, promossa dal Sole24Ore e da FattoreMamma, hanno formulato alla Consigliera Nazionale per le Pari Opportunità, Alessandra Servidori, dieci richieste: la prima delle quali è il sostegno a forme di flessibilità organizzativa che non penalizzino la qualità del lavoro delle madri lavoratrici. Si tratta di interventi per promuovere forme come il part-time (che in Italia, secondo i citati dati ISFOL, è fermo al 27,9%, a fronte del 29,4% francese, del 45,4% tedesco e del 73% olandese), il telelavoro, il job sharing, gli orari flessibili e i congedi parentali. Provvedimenti che precedono nell’elenco dei desiderata le altre misure: sgravi fiscali per le aziende e per le famiglie, campagne di informazione contro il mobbing post-gravidanza, fondi per la creazione di asili nido, prestiti d’onore per le imprenditrici, nidi di condominio, agevolazioni per l’assistenza a anziani e disabili, incentivi ai congedi di paternità e promozione del web a banda larga come leva imprenditoriale per le madri e come strumento di networking.



Ma dietro la domanda delle donne di avere più tempo, e di poterlo gestire meglio, non c’è solo l’esigenza di continuare a lavorare come prima della maternità, o di curare di più se stesse, come sembrerebbe trasparire dai numeri (il 28,3% delle intervistate dall’ISFOL ha dichiarato di trascurare se stesse per dedicarsi ai figli). C’è quello che i numeri non dicono, e che si può ancora soltanto intuire: il desiderio delle madri di restare il più possibile vicine ai loro figli nella prima infanzia. Gli incentivi e le agevolazioni alla flessibilità riescono dove asili nido e baby-sitter falliscono: nel permettere alle donne di non sacrificare la famiglia al lavoro, di non abbandonare i figli in nome della carriera, di non rinunciare alla maternità per la produttività. Perché la conciliazione non è soltanto un problema di welfare, di pari opportunità, di emancipazione, ma è anche, forse soprattutto, un problema di educazione, di infanzia, di civiltà.