Quando mio figlio Stefano frequentava la scuola dell’infanzia, le insegnanti del gruppo dei cinque anni, i cagnolini, programmarono come attività didattica “forte” dell’anno tutto un lavoro articolato e assai ricco dal titolo “Introduzione scientifica e mitologica all’Universo”.
Mio figlio, reduce da un’estate “stellatissima”, accolse di buon grado la proposta, e la seguì. Durante un’assemblea intermedia di confronto con i genitori, per la maggiore entusiasti che i loro figli affrontassero cotanta tematica, una mamma riferì nel seguente modo le parole della figlia: «Mamma, io non capisco niente, non so di cosa ci parlano le maestre…. Se è così adesso, cosa sarà di me alla scuola elementare?».
Cosa sarà di me alla scuola elementare…
Le insegnanti ribatterono prontamente e placidamente, all’unisono: «Ma signora, questo è un problema di sua figlia!». Qualcosa non andava, è evidente.
Cosa non andava? L’affannarsi delle insegnanti – colte e scientificamente preparate – a smontare il giocattolo prima ancora che i bambini potessero scoprirne la bellezza. Di più – e forse più gravemente – l’indurre nel bambino il pensiero (pensiero, ricordiamo, in formazione; un pensiero che sta imparando a pensare e a pensarsi) che ciò che vede, sente, tocca, gusta, percepisce non è poi così interessante, poiché quel che gli deve interessare è una simbolizzazione (introduzione mitologica) e una spiegazione (scientifica) della realtà (universo).
Ma questo, si obietterà, non è sbagliato poiché noi interagiamo fra noi e con il reale attraverso i sistemi simbolico culturali. Ed infatti è (anche) così che effettivamente accade, è innegabile ed è esperienza comune di tutti.
Tuttavia, anteporre questi sistemi al dato, lo svilisce, lo sbiadisce ai nostri occhi che, crescendo, rischiano di vagare disorientati in una nebbia che vela ciò che si sta cercando, e ciò che è compito dell’uomo scoprire.
Il fascino del reale, espresso attraverso curiosità e stupore, è il tasto d’accensione del motore della conoscenza.
La scoperta – che precede, accompagna e alimentaquesto fascino – nella scuola dell’infanzia è una dinamica fondamentale, personale e condivisa.
La scoperta comprende l’incontro, il paragone con sé, il disvelamento, che più avanti avverrà anche grazie alla lente di ingrandimento favorita dall’approccio disciplinare.
Da qui l’importanza della cura del gesto, compito precipuo dell’insegnante di scuola dell’infanzia che, con la sua presenza (inter-esse) innanzitutto, e attraverso il suo delicato e comunque incisivo operare, favorisce -meglio- condivide con il bambino questa continua e nuova scoperta.
Ma la dinamica della scoperta, l’incontro con il dato, mette in moto il bambino che, entusiasta e interessato, sulla realtà interviene, che con essa si paragona, e da qui nasce in lui il desiderio di comprendere meglio (cum prehendere), e di intervenire più efficacemente (cum petere e competentia).
E’ qui che gli vengono in soccorso l’adulto e il suo maestro, veicoli di cultura e di tradizione, ovvero delle coordinate che illuminano il significato e di significato il nostro agire.
Il bambino percepisce per natura ciò che gli corrisponde; attraverso l’atto dell’educazione impara piano piano a muoversi sempre più consapevolmente verso ciò che gli corrisponde. E se ha paura, se si disorienta, non é solo; un maestro segna la via (in-segna), e la percorre con lui.
Allora cosa chiedere ad un insegnante e alla sua formazione?
Che sia colto, certo. Ma colto di una cultura che permetta che avvenga un’esperienza, non che la predetermini o che la artefaccia (l’artificio é il peggior nemico dell’educazione autentica).
Un insegnante dalla coscienza viva, presente ed operante (vedi articolo Cicardi), che introduca in un orizzonte di senso attraverso la meraviglia del reale favorendo «l’avventura amorosa col mondo» (M. Mahler) e strumentando via via il cavallo dei sistemi simbolico culturali, che, cavalcato dal bambino (personalizzazione), potrà percorrere un’esplorazione più ampia ed attenta ed una progressiva decodifica senza censure del panorama di realtà che si dipana innanzi al soggetto (contesto). Credere durante l’infanzia (come allora affermò mio figlio) che “Le stelle sono gli occhi del cielo, e si vedono solo di notte perché il cielo ci guarda quando c’è pace, e silenzio”, oppure che piove perché gli angeli piangono, non impedirà a nessuno di diventare astronomo o metereologo, ma non avere accanto alcuno che condivida e dia credito a questo moto di pensiero, forse sì.
Un insegnante che sia consapevole, e che presti attenzione al tutto nel dettaglio e al dettaglio nel tutto.
La formazione dell’insegnante di scuola dell’infanzia è innanzitutto una questione di metodo, non di numero di anni o numero di nozioni acquisite.
E se la formazione si curerà di educare l’insegnante a guardare il bambino, la realtà e il loro rapporto, anziché programmi e proposte didattico-predisciplinari, avremo insegnanti veri professionisti che prima di sapere, e insegnare, che le stelle (sidera) son fatte di idrogeno, elio e radiazioni, sappiano de-siderare, e de-siderino ammirare ancora, e ancora Sirio e Aldebaran. «…E quindi uscimmo a riveder le stelle».