L’anno è partito con un lampo, che ha fatto pensare a qualcuno – non a noi – ad un nuovo ’68, in rivolta contro i tagli della Legge Finanziaria e contro il “maestro unico”. Ma il tuono non è mai arrivato.

Poi un’altra scossa annunciata: quella della serietà, del voto in condotta che fa o non fa media, della sufficienza in tutte le materie quale condizione per la promozione in terza media o per l’ammissione alla “maturità”. Il messaggio è stato: ora basta con il facilismo, con il lassismo, con il ‘68! Per un attimo i ragazzi si sono spaventati, gli insegnanti si sono visti restituire ruolo sociale e dignità professionale, gli esperti e opinion leaders hanno esclamato: finalmente! E’ durato un attimo, soltanto. Perchè prendere sul serio la serietà vorrebbe dire, se i dati che il Ministero ha fornito sui risultati degli scrutini intermedi hanno una credibilità, che occorrerebbe bocciare, alla fine dell’anno, tra la metà e un terzo dei ragazzi della scuola media e un terzo dei maturandi. Non accadrà. Il sistema non è in grado di reggere un tale trauma, che metterebbe in discussione le sue fondamenta e obbligherebbe forse a prendere atto di una verità autoevidente: che le promesse del sistema educativo – inclusione, eguaglianza, cittadinanza, mobilità – non sono più da tempo mantenute e onorabili all’interno del sistema stesso. E forse ha ragione Marshall Smith, consigliere di Arne Duncan, Ministro statunitense dell’Istruzione: “cambiamenti marginali non servono all’interno del vecchio sistema: consentono solo miglioramenti marginali”. Solo a luglio conosceremo i risultati degli esami finali della scuola secondaria di primo grado e di quella secondaria di secondo grado. Ma, c’è da scommetterci, non si discosteranno di molto da quelli degli altri anni. L’effetto paradossale, all’italiana, è che la campagna ministeriale e mass-mediatica contro il “6 politico” sta approdando nelle migliaia di Consigli di classe a un uso massiccio del “6 politico”.



Un discorso credibile e coerente sulla severità dovrebbe partire dalla certificazione rigorosa della qualità dell’insegnamento prima che dell’apprendimento, nell’ipotesi che ci sia una qualche relazione di causalità tra il primo e il secondo. E mettere in atto innovazioni che garantiscano la qualità nella formazione iniziale, nel reclutamento, nella gestione del personale docente e dirigente.



Finchè questo non accade, ogni discorso appare superficiale, ipocrita, puramente propagandistico. I ragazzi sono i primi ad accorgersi di avere in mano un’arma potente di ricatto: non possono essere bocciati, perché sennò si renderebbe visibile e si aggraverebbe la dispersione – che già ora interessa 200 mila ragazzi l’anno – e le cattedre verrebbero falcidiate. E così la scuola va, come osserva uno del milione di docenti regolari e precari, “come una nave nella tempesta e senza nocchiero”. Abbastanza grande da non affondare, ma abbandonata a se stessa, in preda ai marosi, senza porto in vista. La disconnessione del sistema educativo dalla realtà e dalla vita reale ha effetti diversi sui ragazzi e sugli insegnanti. I ragazzi hanno abbassato le attese verso la scuola e verso di sé: perciò passano il tempo a “socializzare”, raccolgono qualche brandello di sapere qua e là, sempre meno. Non è di lì che passa la loro vita, il loro destino. Del resto il 70% delle cose che sanno non lo prendono a scuola, ma da altre fonti. La maggioranza degli insegnanti e dei dirigenti sperimenta una disperazione quieta e rassegnata, in parte lenita dal rapporto personale con i ragazzi, che è più forte di ogni imbrigliatura burocratica, ma che non basta a conferire loro un ruolo civile e sociale. Una consistente minoranza si assume una responsabilità “in situazione”, senza premio né castigo, gratuità pura, per rispetto di sé e per amore dei ragazzi. 



Fanno parte del paesaggio i “pueri cantores” del cosiddetto “realismo”, che compaiono ad ogni legislatura e con malinconica regolarità annunciano, dai corridoi ministeriali, che le riforme non si possono fare, non si possono comunque fare in fretta, occorre gradualità, no al massimalismo, no al “tutto e subito”, che occorre tempo e tempo, che l’opposizione minaccia sfracelli, che i sindacati sono sul piede di guerra, che il quadro politico, che le alleanze, che i soldi… e via rinviando, di legislatura in legislatura, da decenni. La quota dei progetti di riforma falliti ha ormai raggiunto i 33. C’è solo da dire che un Paese, in cui il sistema educativo è disconnesso dal cuore giovane del Paese, rischia il collasso, la disconnessione dalla storia del mondo.

Così, anche quest’anno scolastico si chiude. C’è speranza? Nessuna legge, nessun decreto, nessuna circolare la può produrre.

Essa rinasce ogni volta dal desiderio di conoscere e di andare incontro alla vita che le generazioni nuove incessantemente ci buttano davanti. Tra meno di tre mesi parte l’anno scolastico di grazia 2009-2010.