Il documento “Una scuola che parla al futuro” affronta in modo sistematico i punti essenziali su cui deve vertere un’ipotesi di cambiamento della scuola. A Valentina Aprea, presidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera, e a Luigi Berlinguer, europarlamentare ed ex ministro dell’Istruzione, abbiamo chiesto di confrontarsi su alcuni dei temi più significativi discussi nel documento.



 

Il documento “Una scuola che parla al futuro” avanza come prima proposta «piena autonomia degli istituti scolastici e libertà di scelta educativa per le famiglie». A che punto siamo e che cosa manca in Italia per la piena realizzazione di questi due aspetti, strettamente connessi fra loro?

Valentina Aprea: Innanzitutto ringrazio Compagnia delle Opere e le associazioni firmatarie del documento, che con questo manifesto hanno voluto riproporre al dibattito pubblico quegli aspetti essenziali di riforma del sistema che meritano di essere portati avanti con convinzione. Sul tema dell’autonomia, credo che l’approvazione della proposta di legge sulla nuova governance della scuola, di cui sono prima firmataria, potrà dare sicuramente più concretezza a principi condivisi dalle nostre leggi e dalla Carta costituzionale, ma che finora non hanno trovato un’attuazione pratica nella vita amministrativa delle scuole. Bisogna infatti realizzare, attraverso principi legati alla sussidiarietà orizzontale, un’autonomia reale, che superi da una parte la dipendenza delle scuole dalla burocrazia ministeriale, e dall’altro l’irresponsabilità attuale delle istituzioni scolastiche. Irresponsabilità dovuta al fatto che finora non si è ancora realizzata una vera valutazione esterna delle scuole, degli insegnanti e dei dirigenti. Lavorando quindi sulla governance per superare l’autoreferenzialità delle scuole, promuovendo una responsabilità sociale che preveda, all’interno di nuovi organi come possono essere i Consigli di Indirizzo, la presenza di realtà del territorio, si riuscirà a dare sostanza a principi dell’autonomia che abbiamo accettato già da almeno dieci anni, ma che di fatto non sono stati capaci di favorire una scuola diversa. In questo discorso, un ruolo essenziale ha poi la parità: quando parliamo di sussidiarietà orizzontale, infatti, intendiamo un sistema che considera un valore aggiunto per l’intero sistema la presenza di istituzioni educative non statali.



Luigi Berlinguer: Sull’autonomia c’è da fare la gran parte, essendo una riforma che è rimasta al 10% delle sue potenzialità. Questo innanzitutto perché non ci si crede molto, e in secondo luogo perché ci sono ostacoli che non la fanno decollare. Il primo ostacolo è la sopravvivenza del ministero così com’è, cioè esecutivo e centralizzato; solo quando diventerà un organo di semplice indirizzo noi avremo il vero potenziamento dell’autonomia. Il secondo ostacolo è finanziario: o le scuole hanno finanza propria,, seppure derivata, oppure non possono campare. Infine, non è stata realizzata la cosa più importante dell’autonomia, cioè l’autonomia didattica, nei contenuti, e quindi la ricerca didattica. Sono convinto che il decreto 275 sia un monumentum istituzionale, tuttora validissimo, ma che non ha avuto esecuzione vera. L’autonomia è fattore e effetto di una concezione dell’education incentrato sull’apprendimento; e oggi così non è. Intimamente connesso a questo c’è il versante dei progetti: non solo i POF, che sono rimasti quasi come semplici soprammobili, ma un progetto integrale che riguarda il quotidiano, l’offerta didattica incentrata sull’apprendimento. La piena legittimità del progetto educativo della scuola è quello che nobilita anche l’idea della parità. L’articolo 33 della Costituzione, che è un mirabile manifesto educativo, prevede la possibilità, oggi coniugata con il nuovo titolo V, di conciliare la funzione educativa, che è pubblica, con la progettualità articolata dalle singole scuole, fatti salvi alcuni principi fondamentali.



I docenti, si legge nel documento, devono essere «veri professionisti». Qual è l’importanza di questo aspetto, e che cosa è necessario fare?

Aprea: È uno degli aspetti qualificanti della legge che stiamo discutendo in Parlamento, e che mi auguro di approvare almeno in Commissione prima della pausa estiva. Questa proposta parla di articolazione dello sviluppo professionale dei docenti, e parla di una professionalità che prevede percorsi di carriera. È attraverso questi percorsi che è possibile arrivare a motivare gli insegnanti e permettere loro di sganciarsi dal mero automatismo degli scatti di anzianità, ancorando invece il loro progresso professionale a quelle performance legate alla qualità, alla competenza, all’impegno. Quindi da parte mia un sì convinto e un pieno appoggio alle ipotesi di professionalizzazione dei docenti: nella mia attività politica in questa legislatura ho dato il mio contributo a questo aspetto avendo portando nel dibattito politico il tema della carriera docente.

Berlinguer: Non esiste attività professionale degna di questo nome che rimanga uguale a se stessa dal giorno in cui si entra al giorno in cui si esce dall’attività. L’arricchimento professionale è nella natura dell’essere umano, e l’istituzione deve riconoscere, rispettare e stimolare questo aspetto. E questo vale a maggior ragione nell’esercizio educativo. Se per esercizio educativo si intende tenere solo un corso di lezioni, allora si ha un’idea povera dell’attività educativa. Incentrarsi sull’apprendimento prevede un’articolazione dell’offerta sul piano dei contenuti, dell’organizzazione, delle forme valutative e di monitoraggio. Tutto questo ci prospetta un’istituzione scolastica complessa, e non invece elementare come quella formata da una cattedra e i banchi, e nient’altro. Ci sono diverse figure che riguardano l’offerta educativa; e questa articolazione non può essere disgiunta dalla crescita professionale riconosciuta. In altri termini: la carriera. Che l’espressione piaccia o meno, si tratta di una cosa da riconoscere e attuare.

Si parla anche di «abolizione del valore legale del titolo di studio», aspetto di cui ormai si discute da moltissimo tempo. Qual è la sua opinione in proposito?

Aprea: È un aspetto necessario, perché sentiamo l’urgenza di arrivare a una certificazione delle competenze in uscita, che siano in grado di accertare il livello raggiunto dagli alunni non secondo criteri soggettivi, ma rispetto ai livelli attesi di padronanza linguistica e di competenza scientifica richiesti dalle indicazioni internazionali. Quindi deve cambiare il sistema: in primo luogo il metodo di insegnamento-apprendimento, e in secondo luogo la certificazione finale. Più che i titoli di studio, più che le procedure, devono valere le competenza acquisite. In questo senso dobbiamo riprendere e rilanciare quel concetto di portfolio delle competenze, già presente in Europa da qualche anno con l’Europass, che ci riporta anche all’aspetto fondamentale dell’educazione permanente. Non solo educazione legata al sistema di welfare che garantisce la prima formazione, ma educazione permanente che metta al centro la persona, che crescendo, facendo esperienze, studiando, lavorando impara a fare determinate cose, dimostra di saperle fare, e raggiunge livelli di competenza che vengono individuati e riconosciuti.

Berlinguer: Si tratta a mio avviso di un falso problema. Per quel che riguarda l’impiego privato successivo agli studi non c’è valore legale che tenga, perché il privato sceglie sulla base della sua valutazione, senza essere vincolato alla formalità del titolo (posto naturalmente il fatto che chi firma un progetto o cura una persona deve avere un titolo per farlo). Nell’impiego pubblico, poi, il discorso è altrettanto semplice: c’è un concorso che mette al riparo da soluzioni sbagliate, essendo la sede di valutazione della qualità differenziata e intrinseca. Per cui la formalizzazione derivante dal valore legale non vincola per niente. Se quel titolo non ha qualità lo si vede nel concorso. Terzo punto: uno degli aspetti più delicati dalla psicologia sociale di oggi è la condizione di precarietà del lavoro. I ragazzi vivono un’angoscia a causa di un eccesso di precarizzazione. Se a questi ragazzi e ai loro genitori si dice che quell’ambito pezzo di carta per il quel studiano, che è il biglietto di ingresso nel lavoro, non vale nulla, il tasso di insicurezza cresce verticalmente. Quindi l’abolizione del valore legale è spesso una battuta un po’ acriticamente ripetuta, perché di moda. Si facciano concorsi seri, e si crei una valutazione della didattica della scuola e dell’università: così si introdurrà una vera verifica, senza abolire il valore del titolo.