Non è consueto leggere un documento sulla scuola che ponga al centro della questione il problema educativo con l’implicita sottolineatura della difficoltà dell’attuale scuola ad essere educativa. La parola “educazione” è vista con diffidenza, preferendo associare alla scuola altre espressioni meno impegnative sul piano valoriale come formazione, apprendimento, piena conoscenza, padronanza di competenze ed altre analoghe. Molti pensano così di essere più rispettosi del pluralismo e della complessità sociale. Nella migliore delle ipotesi si riconosce la necessità di alcuni comportamenti “educativi” finalizzati ad una convivenza civile impregnata di reciproco rispetto.
Al riserbo – per dire così – verso l’educazione fa da sponda un’idea di scuola sempre più proceduralizzata: regolata da protocolli contrattuali molto rigidi, misurata in termini di prestazioni e di competenze, spesso ripiegata sul conformismo didattico. Una scuola che non di rado rinuncia agli spazi di libertà d’iniziativa educativa per evitare di assumersi troppe responsabilità con proposte significative, coinvolgenti, appassionanti, quelle proposte che sono alla base della crescita umana perché pongono interrogativi profondi e, dunque, sollecitano risposte personali. Una scuola che sconta l’indebolimento della figura degli insegnanti non solo sul piano del riconoscimento sociale, ma proprio in termini di fisionomia educativa, spesso riduttivamente concepiti solo come abili didatti e buoni comunicatori.
Condivido perciò totalmente l’indicazione del documento di partire proprio di qui: il futuro della scuola non sta soltanto in una riforma che giunge dall’esterno (anche se buone leggi sono ovviamente auspicabili), ma prima di tutto nella sua forza di “riformarsi” come comunità fatta di educatori capaci di parlare ai giovani non dicendo “fai così”, ma “fai con me”, non fornendo un catalogo di regole da osservare, ma promuovendo insieme la crescita della loro libertà e della loro capacità di discernimento. L’avventura della conoscenza si gioca non nel saper “fare”, ma nel dare un senso alle cose che si fanno.
Una seconda riflessione merita il richiamo alla “scuola del futuro”. La stagione delle riforme “mancate” non è stata inutile perché ha tracciato alcune linee orientatici destinate a durare (penso, per esempio, all’idea della flessibilità dei percorsi di studio, alla proposta della personalizzazione dell’insegnamento, al compimento dell’autonomia, tematiche ancora abbastanza estranee alla cultura riformista di 10-15 anni orsono), ma ha anche esposto il mondo scolastico alla sindrome dell’opera incompiuta.
Di qui una certa – diffusa – nostalgia per una sorta di un’“età dell’oro” che in realtà è mai esistita con il ripristino di alcune prassi tradizionali (anche condivisibili) nella illusoria convinzione che in questo modo si possano recuperare serietà e qualità. Magari fosse così: la scommessa scolastica si gioca nella capacità di disegnare scenari futuri realistici verso cui transitare il fardello ereditato dal passato così da rispondere in modo adeguato e credibile alle esigenze non solo personali (che in ogni caso vengono prima), ma anche sociali, economiche e produttive del nostro tempo.
Tra questi scenari ritengo che quello più importante sia proprio quello indicato per primo nel documento: il rafforzamento dell’autonomia delle scuole, condizione fondante non solo per sfuggire alla protezione soffocante del centralismo (non importante se ministeriale o regionale), ma per creare le condizioni perché la scuola si costituisca davvero in “comunità”, dando così vita a un’esperienza nella quale tra i vari soggetti coinvolti (famiglie, docenti, organizzazioni non profit, enti locali, imprese, ecc.) si realizzi una forte alleanza educativa per far crescere, prima di tutto, le persone in intelligenza, emozioni, sapienza.
Solo così si potrà recuperare quello che oggi pesa come un macigno sulla scuola: il suo rischio di inutilità proprio nel momento in cui, paradossalmente, i saperi “utili” sembrano l’ideologia egemone. Tutto il resto viene dopo.