Il manifesto CdO “Una scuola che parla al futuro” mi sembra un documento animato nello stesso tempo da un intento pragmatico, ma anche da un disegno che, come ha rilevato su queste pagine il prof. Chiosso, collega le proposte finali con la prima parte dedicata all’educazione. Un nesso che non coglie Laura Cioni che invece attacca il pamphlet per una serie di ragioni, alcune in qualche modo un po’ scontate.



Comincio dall’ultima, con la quale si suggerisce che sarebbe stato meglio riversare le energie spese per scriverlo nell’immaginare, piuttosto, “un modo praticabile di formazione degli insegnanti”.

Ora, le sigle che insieme a CdO hanno firmato il testo sono impegnate praticamente tutte anche sul versante della formazione dei docenti, ne incontrano migliaia all’anno, sudano le fatidiche sette camicie per mettere in piedi in varie regioni italiane corsi e iniziative di carattere disciplinare e metodologico. Sanno bene, tuttavia, le medesime sigle, che la formazione in itinere è l’ultima preoccupazione dei docenti, fatta eccezione per coloro che sono già dotati di un’alta consapevolezza del compito che svolgono, perché non sono aiutati a viverla come un’opportunità per sé stessi, per il miglioramento del proprio insegnamento e per l’eventuale sviluppo di un profilo professionale che attualmente è appiattito sul ruolo impiegatizio.



In altri termini il docente che si accontenta di avere un posto e un pasto, per cui anche se in malattia “lo Stato gli garantisce il lavoro” è esattamente agli antipodi del docente che dovrebbe attivarsi per aggiornarsi e continuare a formarsi. Delle due l’una: o la tesi dell’assistenzialismo o quella della responsabilità personale. E veniamo a quest’ultima. Si può pensare, come suggerisce il documento CdO, ad un docente come “vero professionista” la cui vocazione alla comunicazione di sé attraverso ciò che insegna, e quindi il suo impegno educativo con gli alunni e il rapporto con tutto l’insieme delle circostanze che determinano una scuola, siano riconosciuti degni di uno statuto giuridico autonomo che ne salvaguardi le prerogative e ne rilanci l’azione nell’attuale contesto culturale della nostra comunità?     



Se la risposta è sì, allora bisogna anche trovare i motivi che finora hanno impedito questa soluzione.

Tra le cause, oltre allo strapotere del sindacato che detiene il controllo contrattuale della categoria, vi è anche l’inveterata caratterizzazione della professione come “funzione” sociale. La “funzione docente” a cui fanno riferimento i contratti, appunto, e le normative ad essi connesse, implica diritti e doveri che prescindono da “chi” il docente sia, per privilegiare “che cosa” il docente debba fare: tenere la classe, correggere i compiti, partecipare alle riunioni… Lo fa bene? Lo fa male? Non importa: l’importante è che lo faccia. E se lo fa male o lo fa così così, il sistema lo premia con lo stesso stipendio di chi lavora in ben altro modo.

La conseguenza di questo assetto, lo sappiamo, è che il docente opera normalmente tenendo conto dei ragazzi che gli sono affidati (in ingresso) e raramente di come sono quando escono dai percorsi scolastici (in uscita). Viceversa, se la scuola vuole essere non solo dell’insegnamento, ma anche dell’apprendimento (capace cioè di valutare che cosa è stato appreso e come ciò sia avvenuto) il docente dovrebbe poter essere più libero di impostare l’insegnamento in maniera che le strutture fondamentali delle discipline diventino metodi di apprendimento della realtà. Tutto questo implica certamente più autonomia e meno centralismo, ovvero una scuola imperniata sul rapporto insegnamento/apprendimento e sui soggetti che la fanno. Il contrario, su questo Cioni ha ragione, della scuola dei progetti (figlia di una stagione che peraltro mi sembra ormai finita per mancanza di fondi disponibili) che sottrae il docente al luogo naturale della sua azione: la classe.

L’autonomia che il documento sostiene ha come scopo il riconoscimento di tutto ciò che esiste per rendere l’avventura della conoscenza una esperienza di incontro tra la libertà dell’insegnante e quella dell’allievo: questo è il cuore dell’autonomia (che oggi è usata male anche perché non realizzata nemmeno sulla carta). 

Non è un caso che l’autonomia degli istituti scolastici sia messa in relazione con la piena attuazione della parità scolastica (due facce della stessa medaglia), il cui proprium è la garanzia che la tradizione di un popolo possa trasmettersi ai figli attraverso una maggiore sintonia tra gli insegnamenti e una chiara offerta culturale.

Non si confonda dunque – forse Cioni lo fa – autonomia con decentramento, cioè con una semplice operazione di trasferimento di risorse da una centro organizzatore ad un altro centro organizzatore. Non si chiede qui che la scuola diventi semplicemente della regione o del preside, mentre prima era dello Stato. No. Si chiede che ridiventi del popolo. Quindi degli insegnanti che intendono svolgere percorsi di insegnamento personalizzato, dei dirigenti chiamati a dare conto dei finanziamenti che ricevono e, perché no, degli amministratori che, senza intervenire nella didattica possono intravedere opportunità di rapporto con il territorio.

Non vogliamo chiamare l’organo di gestione dell’istituto scolastico consiglio di amministrazione perché il termine può essere ambiguo? Chiamiamolo consiglio di indirizzo, o come si vuole, purché ne sia chiaro lo scopo: mettere la scuola nella condizione di spendere meglio, di spendere per uno scopo, di spendere per essere valutata.

Certo, non sono le condizioni esterne che magicamente rendono più incisivo il passo che accompagna i giovani dentro la realtà: occorrono degli adulti che vivono ciò che propongono. Ma l’educazione è anche la risposta ad una sfida che il mondo oggi pone e la si vive offrendo un giudizio sull’insieme dei fattori con cui questo mondo si presenta a chi si avvia sulla strada della formazione.