Il Servizio statistico del Ministero della Pubblica istruzione ha pubblicato nel marzo 2009 i dati relativi agli scrutini intermedi dell’anno scolastico 2008-09. Il nocciolo duro era il seguente – i lettori forse lo ricorderanno – : nella secondaria di primo grado il 48% dei ragazzi aveva almeno un’insufficienza; nella secondaria di secondo grado la percentuale di insufficienti arrivava al 74%.
Nessuna meraviglia che gli stessi dati si presentino ora, irrimediabili, a valle dell’anno scolastico. Si tratta di dati parziali, frutto di campionamenti e proiezioni. Ne restano esclusi quelli relativi agli esami finali di stato della Terza media e dell’ultimo anno della Scuola media superiore, perché saranno disponibili solo a luglio. Che probabilmente, dopo la pesante scrematura finale, saranno forse “migliori”. Quel che si vede, per ora, è che circa 70 mila ragazzi sono stati bocciati tra la prima e la seconda media – di cui 10 mila con il 5 in condotta; che quasi 400 mila sono stati respinti nelle classi dalla prima alla quarta superiore; che non sono stati ammessi alla maturità il 6%, cioè circa 29 mila.
Commenti pro e contro si sono intrecciati. Il Ministro Gelmini: «Nessuno si compiace per l’aumento delle bocciature, è sempre un dispiacere quando un ragazzo perde l’anno, ma serve una scuola del merito, non una scuola buonista». Tra i prof, qualcuno tira un sospiro di sollievo: “finalmente le classi saranno più gestibili”. Altri pensano, viceversa, ai ragazzi perduti, in fuga dalla scuola. Alcuni propagandisti-ideologi plaudono alla ritrovata serietà della scuola italiana. Mah! Un fatto è certo: la decisione mediatica di usare il termometro ha rivelato che la febbre del sistema scolastico italiano è alta. Non che non si sapesse già per mille sintomi e per mille ricerche, nazionali e internazionali. Del resto, quasi un milione di testimoni – gli insegnanti – era in grado, in questi ultimi decenni, di testimoniare l’aggravarsi quotidiano della malattia. Il Rapporto dell’Istituto Cattaneo del 2001 scriveva: «i nostri giovani leggono meno, studiano meno, sanno meno».
Non che fosse ignoto alle autorità addette alla bisogna. La conferenza di Frascati, organizzata dal Ministro Mattarella, è del 1990. Innumeri progetti di riforma sono precedenti, risalgono agli anni ’60. La tensione tra scuola di qualità e scuola di massa ha incominciato ufficialmente ad accendersi già dal 1963. Dunque, si sapeva. Tuttavia, ben venga il termometro, se questo squarcia alibi e silenzi colpevoli. Per anni si è deciso, quando segnava febbre, di spezzarlo, come se il rompere il termometro fosse una terapia. Le ragioni erano le più disparate: occorre mandare avanti tutti, a prescindere; bisogna garantire le cattedre… Il fatto è, tuttavia, che neppure la misurazione pubblica è una terapia. Il passaggio dal buonismo al severismo invia un messaggio ideologico all’opinione pubblica, alle famiglie, ai ragazzi: ora facciamo sul serio! Ma di qui alla “scuola del merito” occorre percorrere ventimila leghe. Chi deve fare sul serio e che cosa? Se esiste, come pare intuitivo, un qualche legame di causalità tra insegnamento e apprendimento, la serietà richiede una revisione radicale dell’assetto istituzionale, ordinamentale, culturale della didattica e della professione docente. Così, del resto, propone un recente documento della Compagnia delle Opere. Se la macchina produce tanti “scarti”, forse la colpa non è solo della materia prima – entra già avariata nel processo educativo?!… – ma probabilmente e molto di più del progetto e del processo di “lavorazione”. Se qualcuno pensasse, come dichiarato da una docente di Istituto professionale, che ora, bocciati un po’ di ragazzi, gli altri finalmente possono incominciare a studiare, beh, sarebbe un pensiero poco serio. Se diventa più rigoroso l’esame dei ragazzi, ancor di più dovrebbe esserlo quello dei docenti e delle scuole. La domanda radicale: quanti sanno insegnare? Quanti educano insegnando? Perché dalla 4/5 elementare fin dentro i tre anni di scuola media la curva dei rendimenti si abbassa sempre di più?
Ma l’altro problema da non nascondere sotto il tappeto è il destino dei bocciati. Una parte di loro abbandona subito la scuola e va ad ingrossare l’esercito del “vulgo disperso, che nome non ha” dei 200 mila ragazzi, che ogni anno sono espulsi dal sistema educativo e che stanno sospesi nel limbo che si estende tra il sistema educativo e il mercato del lavoro. E’ la cifra più alta in Europa: oltre il 20% dei ragazzi in età. Dei bocciati che rimangono a scuola, solo il 2/3% avrà un beneficio reale dalla ripetenza: così almeno dicono fior di ricerche internazionali fin dagli anni ’80. Per ultima quella di Marcel Crahay del 2007, intitolata “Peut-on lutter contre l’échec scolaire?”. Gli altri andranno a rendere più difficile la gestione delle classi in cui si ritroveranno l’anno prossimo. E alla fine dell’anno di ripetenza il problema si ripresenterà. E questa volta saranno respinti. E finiranno tra i dispersi. Ma la domanda radicale che insorge è la seguente: la scuola ha come funzione fondamentale quella di promuovere/bocciare o quella di far crescere ciascuno verso la propria meta e di certificare rigorosamente a che punto è arrivato il ragazzo, rispetto a parametri pubblici e condivisi? Ha senso continuare a mantenere il legame biunivoco e deterministico tra classe di età e programmi scanditi annualmente? Così che se l’età non si allinea alla scansione dei programmi, uno deve essere buttato indietro? Molte domande! Finora la risposta del sistema educativo e della politica che lo telecomanda (o ne è telecomandata?) è quello di un automa, che ripete gesti e risposte standardizzate secolari ormai senza senso. A tutti gli entusiasti del severismo facile, l’appuntamento a tra un anno. Quando si vedranno i risultati delle bocciature di quest’anno. Sempre che il Ministero sia dotato dell’Anagrafe degli studenti. Se è una vittoria della severità e del merito, è forte il sospetto che si tratti di una momentanea e mediatica vittoria di Pirro.