Nel riordino delle carte cui mi dedico prima dell’estate, mi accade talvolta di recuperare dal passato documenti di cui si era persa o appannata la memoria: ed ecco spuntare oggi dal faldone “autonomia” il n.6 del 1991 della “Documentazione educativa”, che si intitola “studio di effettiva disponibilità degli istituti a realizzare un processo di autonomia”, e presenta i risultati di un’indagine fatta nel 1988 in 140 scuole di sei città a capi di istituto, responsabili dei servizi di segreteria e insegnanti (676).



Oggetto della ricerca era il disegno di legge presentato al CNPI il 20.02.88 dall’allora ministro dell’Istruzione on. Galloni, che riprendeva e sviluppava i DD del 1974, composto di 27 articoli di cui il primi 14 riguardavano l’ autonomia delle unità scolastiche e quelli dal 15 al 24 la modifica della disciplina degli Organi Collegiali. «Le strade seguite per dar corpo all’intenzione innovatrice – chiosa il commentatore – sono fondamentalmente due: da un lato il rafforzamento dell’autonomia organizzativa, didattica e finanziaria delle singole scuole, dall’altro una serie di ritocchi agli organi collegiali». Ho come l’impressione di aver già sentito qualcosa di simile.



Gli organi collegiali sono ancora lì che aspettano: in quel momento si erano già mostrati inutili, ma si pensava di migliorarli potenziandoli con la possibilità di inserire nelle Giunte esecutive anche esperti esterni, razionalizzandone il funzionamento e agevolandoli anche con finanziamenti. Nel 1997, con l’avvio dell’autonomia, si dava mandato al governo di provvedere alla riforma. Ma nulla è cambiato, tranne il livello di inutilità “percepita”, come dicono i metereologi.

Quanto all’autonomia, le proposte della legge Galloni erano molto vicine a quelle contenute nel regolamento del 1999 (nel frattempo erano passati dieci anni…), fatta eccezione per due interessanti proposte, cadute nel vuoto e coraggiosamente riprese  oggi dalla proposta Aprea:



La possibilità per le scuole di chiamare docenti da altre scuole (art.7) nel limite del 15% dell’organico, collegata alle variazioni del curricolo e dell’orario (anch’esse del 15%, proposta questa accolta dal regolamento attuativo);

L’ipotesi che il contributo dello Stato faccia  parte delle entrate delle scuole:  si dice esplicitamente che “nella consapevolezza che l’attribuzione di una reale autonomia sarebbe vanificata dalla mancanza di concrete disponibilità finanziarie, il disegno di legge si propone anche di ampliare e diversificare le fonti di finanziamento delle singole scuole”. Su questo, passi avanti meno di zero.

Quale era il parere dei 955 intervistati, oggi probabilmente tutti in pensione, ma abbastanza verosimilmente coinvolti nella fase di attuazione dal 1997 a 2000? E quanto sarebbero cambiate oggi le risposte? Nel 1988, circa tre quarti del personale considerava “eccessivo” l’accentramento decisionale della scuola italiana, per cui il circa un insegnante su tre e la metà dei presidi pensavano che l’autonomia sarebbe stata decisiva per il miglioramento del servizio, e solo 7 presidi su cento e 14 insegnanti la consideravano poco o per niente utile. Nella ricerca Iard del 2008, un quarto degli insegnanti intervistati dichiara che non è cambiato niente, per il 45% ha introdotto dei miglioramenti e per circa il 15% ha peggiorato la situazione: un classico esempio di profezia che si auto adempie o l’incapacità dei decisori di tastare il polso alla scuola? Si noti che la metà degli intervistati riteneva che si sarebbe dovuto partire gradualmente su richiesta delle scuole, e solo il 28,2% rispondeva “attuarsi da subito per tutti”: precisamente quello che è avvenuto, almeno formalmente, benché risultasse gradito solo a un quarto del personale.

Non c’è qui lo spazio per un commento dettagliato, mi limito a citare alcune risposte che avrebbero meritato una riflessione: il 60% dei presidi e il 73% dei docenti già nel 1988 pensava che il Ministero dovesse fissare solo gli obiettivi generali; le resistenze alla differenziazione di orari, funzioni del personale e soprattutto retribuzione erano forti: circa la metà dei presidi avrebbe voluto poter assumere o licenziare i docenti, ma solo il 28% dei docenti avrebbe assegnato alla scuola questo compito, anche se la metà delle due categorie considera “interessante “ la possibilità di chiamare da altre scuole docenti in servizio, o di bloccare i trasferimenti fino alla conclusione dei progetti in cui sono coinvolti. La valutazione dell’attività della scuola era del tutto autoreferenziale: la modalità “al collegio dei docenti” (cioè a chi l’ha decisa e messa in pratica…) prevale sia tra i dirigenti (32.8%) che tra i docenti (35.1%); l’ispezione statale è gradita al 23,1% dei dirigenti e al 26,6% dei docenti, mentre il parere dell’utenza riscuote scarso successo, maggiore tra i docenti (22,6% contro 17,1%). Un dirigente su dieci ritiene che sia suo compito valutare l’attività, ma solo un insegnante su venti gliela riconosce…

Fermiamoci qui. Il mio obiettivo era duplice: mostrare che quando si pensa di riformare la scuola italiana si ricomincia sempre da capo (e del resto il ministro Moratti lo dichiarò esplicitamente con il titolo degli Stati Generali da lei convocati), e che, della poca ricerca che si fa, così come degli esiti della sperimentazione, poco o nessun conto si tiene. Se al posto di Richelieu ci fossero stati i ministri italiani della pubblica istruzione, nonostante le sue gesta gloriose, D’Artagnan vent’anni dopo starebbe ancora nel cortile di Tréville in attesa di diventare moschettiere.