A proposito delle valutazioni conclusive dell’esame di maturità 2009, che ha comportato, come ormai tutti sanno, la bocciatura di 15.000 ragazzi (3 mila in più rispetto al 2008) si è parlato di ritorno del rigore e di vittoria della cultura del merito. Un trionfo che deve essere valutato attentamente e contestualizzato perché non si incorra nell’errore di scambiare la febbre come rimedio dell’influenza. Lo stesso ministro Gelmini ha tenuto a dichiarare (La Stampa) che i bocciati non sono un bello spettacolo, ma semplicemente il segnale che la scuola del buonismo, disastrosa per gli stessi alunni, è finita.



Ora, è vero che il lassismo nella scuola ha largamente dominato (a cominciare dall’assenza di ogni forma di valutazione esterna dei risultati delle singole istituzioni scolastiche), ma è certo che per essere debellato deve essere combattuto dalle radici, più che bersagliato nelle sue conseguenze finali. 

Ci pare che tali basi da contrastare siano due: l’idea di una scuola egualitaria (che è ben diversa dalla scuola delle opportunità) e la riduzione dell’insegnante ad impiegato statale (la cosiddetta “bidellizzazione” della professione docente).



Il primo caso (omologazione dei percorsi) si è verificato e si verifica tutte le volte che la scuola è intesa come ambito di socializzazione, piuttosto che luogo in cui si impara a conoscere e ad apprendere. Una certa deriva della scuola media (non me ne abbiano i colleghi insegnanti della secondaria di I grado, ma è proprio da questi territori che alte si levano le grida di dolore) e la mancata realizzazione in Italia di un “secondo canale” dell’istruzione e formazione professionale, complici alcune legislazioni regionali che hanno privilegiato l’istruzione statale a scapito del raccordo con la formazione professionale: queste due storture sono rappresentative della illusione di matrice deweyana, ancora ben viva, per cui l’ambiente sociale è di per sé educativo e quindi, nei percorsi scolastici, dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore, tutti devono fare più o meno le stesse cose al fine di maturare personalità integrate e integrabili.



Come dimostrano appunto gli esiti dell’esame di maturità, che nel loro picco negativo colpiscono soprattutto i giovani degli istituti professionali e tecnici, la licealizzazione dell’istruzione tecnica e professionale (cioè l’assimilazione ad un unico modello di insegnamento/apprendimento) è una soluzione che è stata pagata a caro prezzo da un capitale umano che viene disperso inutilmente.

Quanto alla seconda questione, gli insegnanti e il loro statuto professionale, occorre riconoscere che in generale la categoria è piuttosto conservatrice, se si considerano le sue abitudini di tipo didattico e culturale, ma non ostile come un tempo alla prospettiva di una progressione della carriera. Occorre mettere ordine e fare una sintesi tra i due corni del problema. I docenti italiani, la cui età media si aggira intorno ai 50 anni, si servono degli strumenti che hanno a disposizione (la lezione, il registro, il voto) perché li ritengono (non a torto) sicuri ed efficaci, mentre fanno più fatica a muoversi in un ambito in cui dovrebbero/potrebbero calibrare gli strumenti didattici sulla base della realtà degli studenti che hanno di fronte e delle loro famiglie.

In altri termini, non sono ancora entrati nell’ottica dell’autonomia didattica, nonostante il ben conosciuto Regolamento in materia di autonomia (il Dpr 275 del 1999) reciti addirittura che «le istituzioni scolastiche possono adottare tutte le forme di flessibilità che ritengono opportune: articolazione modulare del monte ore; definizione di unità di insegnamento non coincidenti con l’unità oraria; attivazione di percorsi didattici individualizzati, etc…». Tuttavia, la formazione dei docenti all’autonomia didattica e organizzativa, che a questo punto è strategicamente decisiva, non può più avvenire sul piano della semplice incentivazione o del riconoscimento di alcune “funzioni strumentali” all’interno di collegi docenti sostanzialmente amorfi. La formazione per essere generale e non calata dall’alto come era nelle intenzioni del ministro Berlinguer (e mal gliene incorse) deve essere messa in relazione con lo sviluppo della carriera docente, in modo da essere percepita come un compito attinente le stessa professione. Non essendoci oggi nessuna carriera docente, non c’è in pratica formazione del docente, se non nella forma di offerte che le associazioni professionali e talvolta la stessa amministrazione centrale fanno, rivolgendosi però, di fatto, ai più motivati e ai più impegnati (per i quali la formazione è un investimento soggettivo esente da ogni riconoscimento pubblico).

Tutto questo permette di spiegare, forse, un esito degli esami di maturità 2009 apparentemente più severo, ma incerto quanto alle considerazioni generali cui dà adito. Si boccia di più, ma con gli stessi strumenti di prima (fatta eccezione per la novità degli ammessi alla prova con sole tutte sufficienze, che avrebbe dovuto semmai limitare i danni finali). Invece è cambiato il sistema degli apprendimenti dei ragazzi, tanto da renderli per certi versi molto più precoci nella gestione di determinate competenze di tipo pratico-informatico e molto più distratti rispetto ad acquisizioni di tipo riflessivo. Ma se questo è il nuovo terreno, bisogna riconoscere che lo spostamento dell’asse della comunicazione didattica verso un insegnamento che tenga conto della situazione ricettiva degli alunni e si interroghi su che cosa effettivamente apprendono, e come lo fanno, non è ancora compiuto.

Percorsi formativi rigidi (la famosa omologazione) e strumenti valutativi non sempre adeguati, facilmente portano a risultati di maggiore intransigenza, là dove sia questo il solo fine assegnato all’attività formativa della scuola.

La scuola però non sarebbe tale se non si prefiggesse il compito di aiutare ad apprendere e a conoscere, cioè a valorizzare capacità, attitudini e forme di conoscenza raggiunte consapevolmente, senza rinunciare al compito di correggere, valutare, personalizzare.

È in questo senso che il merito deve coniugarsi con il metodo, cioè con la formazione di una soggettività dei docenti che permetta loro, dispiegate appieno le loro capacità educative, di declinare gli obiettivi di apprendimento in ragione degli alunni che hanno in classe, che dovranno essere considerati potenzialità e non pesi da subire.

Una piena soggettività docente deve però essere formata, in un clima di libertà di insegnamento e di educazione. Deve anche tradursi in uno statuto professionale che la liberi dalla pesante eredità dell’assistenzialismo burocratico-sindacale che preserva i docenti dalle novità e dalla tanto temuta autonomia delle scuole, ma non aiuta certo ad elevare la qualità dell’offerta formativa e degli apprendimenti dei ragazzi.