Si riaccendono i fuochi d’artificio sul maestro unico.
È stato emesso il parere della Corte dei Conti con deliberazione n.12, con la quale è stato apposto il visto di registrazione al Regolamento sul primo ciclo di istruzione. Nel parere si legge che il modello del maestro unico «viene sì indicato come modello da privilegiare nell’ambito delle possibili articolazioni del tempo scuola, ma pur sempre tenuto conto della richiesta delle famiglie e nel rispetto dell’autonomia scolastica».
Gongolano coloro che hanno sbandierato le percentuali risicate delle famiglie che hanno scelto l’opzione del maestro unico (3%). Gongolano i fautori irriducibili del modello “modulare” introdotto nel 1990 e giunto a pieno regime nell’arco di breve tempo. Non si vuole qui riaccendere il dibattito pro o contro la figura del maestro unico; si pongono invece alcune osservazioni che sorgono a partire dal parere espresso dalla Corte dei Conti.
Si sottolinea che occorre tener conto della richiesta delle famiglie. Criterio sacrosanto. Ma chi spiega (o ha spiegato) alle famiglie la portata educativa e culturale di una scelta di organizzazione scolastica? Le famiglie scelgono un’opzione piuttosto che un’altra in base ad esperienze positive fatte dai propri figli, o dai figli degli amici. Se uno dei figli, o loro stessi, hanno dovuto subire un rapporto difficile e negativo con un solo docente per cinque anni (e può succedere) allora si invoca la pluralità di insegnanti per avere la possibilità di instaurare rapporti educativi e personali più facilitati.
Le famiglie scelgono un’organizzazione scolastica che prevede più tempo di permanenza a scuola anche per altri due motivi. In primo luogo perché pensano, martellati dalla common opinion, che rispetto ai loro tempi molte più conoscenze (e discipline) debbano essere insegnate ai propri figli. In secondo luogo – ma più necessitante – i genitori che lavorano entrambi hanno bisogno che la scuola assolva anche il compito di “servizio sociale”. Tale tendenza fino ad alcuni anni fa riguardava le famiglie appartenenti ai ceti medio-bassi, oggi tocca tutte le fasce sociali, anche le più acculturate e preoccupate dell’educazione e istruzione dei figli. Nessuno nega che il bisogno di accudimento dei figli sia nella nostra struttura sociale pesante e reale.
Ma cosa c’entrano le due motivazioni riportate con il rifiuto del maestro unico? Forse che la distribuzione del tempo scuola su più docenti garantisce di per sé una maggior qualità della cultura e della professionalità dei docenti stessi e possibilità plurime di conoscenza per gli alunni? La questione va impostata forse in altro modo. È evidente che un solo docente (tuttologo?) non può andare a fondo di tutte le discipline (ciò significa studiarle e conoscerle nelle loro valenze formative) e insegnarle “bene” agli alunni. È altrettanto evidente che il docente che si occupa di una sola o due discipline non automaticamente le padroneggia nei loro elementi peculiari e nella loro valenza formativa (colpa questa da attribuire alla formazione inadeguata). La questione è a monte. Occorre una formazione diversa per i docenti, sia iniziale che in itinere. La parcellizzazione dei saperi che devono possedere i docenti impedisce di proporre agli alunni il sapere e la cultura nella sua integralità e complessità. L’anticipazione della disciplinarietà nella scuola primaria non è vincente. Dai 6 agli 11 anni l’alunno si affaccia e conquista la conoscenza nelle sue prime sfaccettature, ma attraverso un principio unificatore.
In questo senso, qualsivoglia scelta venga operata (sistema stellare in cui un docente è supportato ed affiancato da “specialisti”; modularità che vede due o più docenti “specializzati” in aree disciplinari; tempo pieno con compresenze temporalmente significative di docenti), qualsiasi scelta può acquistare in efficacia formativa e didattica nella misura in cui si costituisce un autentico team di docenti che assume la veste di équipe pedagogica. Quest’ultima ha il compito di individuare metodi, conoscenze e valenze aperte tra le varie conoscenze perché i docenti si propongano – pur nella specificità della loro personalità – in modo coordinato e coerente agli alunni. Un’équipe pedagogica deve avere anche l’accortezza e la libertà di individuare le competenze specifiche di ogni componente e di farle esprimere al meglio per chi insegna e per chi apprende.
La Corte dei Conti invoca anche il rispetto dell’autonomia scolastica. Tale termine ha assunto ormai una pluralità di significati che intorbidano quello originale. Sarebbe troppo facile ritenere che si salvaguarda l’autonomia delle scuole nella misura in cui queste ultime possono scegliere la propria struttura organizzativa, senza dover soggiacere a vincoli dettati da norme e leggi. L’autonomia scolastica può acquisire significato nella misura in cui le risorse umane (l’expertise presente nella scuola) possono essere “utilizzate” secondo schemi che possono stravolgere la struttura classica in classi, il quadro orario in discipline, perché le peculiarità di ciascuno vengano valorizzate e messe al servizio dell’intero istituto scolastico. A fronte di un progetto educativo e didattico la singola scuola dovrebbe avere l’opportunità di ricercare e poter prendere in prestito – con la modalità del “comando” – risorse professionali con cui stabilire un “patto educativo e pedagogico”, finalizzato alla realizzazione del progetto ipotizzato.
Una scuola autonoma – mantenendo fede a pochi ma obbligatori principi e condizioni dettati dal Centro – deve poter immaginarsi un’organizzazione, sì, a partire dalle risorse presenti nell’istituto scolastico, ma anche poter attingere risorse almeno all’interno di reti di scuole, se non su libera chiamata. Finora la scuola primaria italiana ha potuto – laddove si è lavorato con criterio e serietà – giocare la propria autonomia nella attuazione delle “Indicazioni” (morattiane e/o fioroniane) e, in alcuni casi più o meno felici, nella scelta del tempo scuola degli alunni, non dei docenti! Fino a che permarrà il sacrosanto diritto del tempo professionale del docente di 24 ore lavorative (22 + 2), alla scuola dovranno essere accordate altre possibilità per giocare la propria creatività mirata a potenziare le proprie risorse e rendere sempre più efficace la propria azione formativa.
Qualcuno ebbe ad affermare che per educare un bambino occorre un intero villaggio. Ogni scuola ha il diritto dovere di essere un villaggio per gli alunni che la frequentano. (Un tempo si parlava di comunità educante…). E la questione maestro unico o no è uno degli elementi da prendere in considerazione: non è certo la panacea per un problema ben più articolato. I media non hanno certo aiutato, e la scuola e la famiglia, a porre correttamente la questione. La scuola da oggi in poi rischia di rimanere ancora una volta sola di fronte alla messa in atto di una libertà che molto è proclamata, poco è praticabile. E le famiglie diventano ancora di più decisori confusi o plagiati dalla propria emotività, dalle contingenze o da pulsioni ideologiche.
Sarebbe auspicabile per tutti partire da una semplice domanda: a cosa serve e come serve la scuola per i nostri bambini, figli o alunni che siano?