Il tempo passa e le riforme non arrivano. Negli ultimi giorni ilsussidiario.net ha raccolto l’appello lanciato da Clds, in merito alle preoccupazioni circa l’evidente impasse in cui versa il Ministero dell’Istruzione, pubblicando un articolo riassuntivo sulle più urgenti questioni e intervistando il senatore Giuseppe Valditara in proposito. Oggi la parola passa a un membro dell’opposizione, il senatore del PD Nicola Rossi, professore ordinario di Economia Politica nonché esperto di politiche universitarie
Qual è la sua opinione in merito al volantino distribuito da CLDS?
Quelle contenute nel volantino sono osservazioni più che legittime che al fondo lo stesso senatore Valditara, nell’ultima intervista al vostro giornale ha riconosciuto. L’attendibilità di quanto si afferma è stata legittimata con una malcelata presa d’atto. Il volantino non fa altro che segnalare ritardi e assenze e a fronte di tali ostacoli non si sente una forte obiezione. La parte del percorso di rinnovamento dell’università che il Governo riconosce come “fatta” riguarda procedure e operazioni che normalmente si svolgono in tempi normali. Il resto è, come giustamente sottolineato, oggetto di un grande ritardo.
A quanto pare il ministro Maria Stella Gelmini ha intenzione di far sì che i tagli per il 2010 siano inferiori a quelli precedentemente previsti, è ottimista anche lei?
La giusta reazione per me non consiste più di tanto nell’essere ottimisti o pessimisti, piuttosto di domandarsi come un sistema universitario o, meglio, qualunque istituzione esistente possa sopravvivere quando, durante il secondo semestre di questo 2009, nulla si sa circa ciò che accadrà nell’anno successivo. Peggio ancora: l’unica cosa che risulta certa è che le risorse saranno tagliate in maniera consistente. Mi spiego meglio: quello che colpisce non è tanto che ci siano o non ci siano tagli, bensì che se veramente tagli ci devono essere non si dica, e con grande anticipo, come questi siano organizzati, quali settori andranno a ridimensionare. È ben strano che un Governo non dica agli enti interessati di prepararsi in proposito.
Invece, tipicamente “all’italiana”, si minacciano dei tagli, si arriverà alla seconda parte dell’anno e naturalmente non sarà accaduto nient’altro. Le università protesteranno e il risultato sarà che anche l’aspetto positivo dei tagli andrà perso.
Per le lungaggini relative alla riforma del reclutamento e al destino dei concorsi già banditi è stata incolpata la complessità del caso e la ricerca di soluzioni trasparenti. Le sembra una spiegazione plausibile o attribuisce i ritardi ad altri motivi?
Se volevo una conferma alla mia idea di sempre, e cioè che bisogna abolire i concorsi, credo che il senatore Valditara me ne abbia dato ampia evidenza rispondendo in quella maniera. Visibilmente si tratta di affermazioni insensate. Quando a novembre si è varata la norma del decreto Gelmini la quale prevedeva una cosa sensatissima, e cioè che si mettesse fine a quei concorsi che avevano l’esito già scritto, non si sapeva forse che a qualche reazione si sarebbe andati incontro? Con quali criteri è stata scritta quella norma? Ora, a distanza di mesi, facciamo una richiesta all’Avvocatura dello Stato per capire come si devono organizzare le procedure. Io penso che qualunque persona normale guardi a queste cose in maniera piuttosto allibita.
Sono il primo a sapere che tali riforme sono particolarmente complesse, ma è esattamente perché so che dentro queste complessità, sfruttandole, si annidano le vere resistenze, che proporrei riforme semplici, volte a tagliare i nodi gordiani anziché scioglierli.
Quindi propone un’azione più drastica?
Semplice più che drastica. Ho bene in mente un sistema come quello dei concorsi che è il luogo nel quale si condensano tutte le resistenze corporative, tutta la storia intera del potere accademico e baronale. Pensare di poterlo aggiustare ogni volta riscrivendo le regole è una cose che non porta da nessuna parte. Nella storia degli ultimi 15 anni abbiamo avuto tutti i possibili concorsi che la mente umana potrebbe immaginare, tutte le possibili varianti, tutte le possibili permutazioni di ogni possibile schema. Il risultato è sempre stato lo stesso, solo un cieco non vede che il nodo è inestricabile.
In questo senso le proposte lanciate dal senatore Valditara le sembrano utili? Lei che cosa propone?
Bene, prendendo in considerazione la prima, ossia la “creazione di un fondo per pagare i professori e i ricercatori che per qualità della didattica e della ricerca si siano distinti in modo particolare” direi che l’intenzione è quella di complicare ancora di più le cose. Io propongo invece di dare maggiore autonomia alle università che decidano quali professori assumere e come pagarli. Se queste decisioni si riveleranno errate, saranno gli stessi atenei a pagarne le conseguenze. Perché creare un fondo? Nella Pubblica Amministrazione c’è una lunga tradizione di questi fondi e questa tradizione ci racconta che solitamente i soldi sono stati ripartiti in maniera uguale per tutti, perché, com’è noto, sono tutti “bravissimi”. Insomma condivido l’obiettivo di premiare il metodo, ma lo strumento mi sembra sia inappropriato.
Sulle borse di studio devo invece riconoscere che il Governo sta già facendo qualche sforzo vero e serio.
Che ci dice delle altre idee?
Sono tutte un po’ viziate dall’intenzione di dover proclamare qualche cosa. Per esempio: l’individuazione di dieci università di eccellenza da premiare con fondi extra da chi dovrebbe essere svolta? E perché proprio dieci? Se i soldi se li fossero meritati solo cinque atenei dovrebbero spettare solamente a loro. Lo stesso dicasi per la proposta dei 100 progetti e dei 500 professori stranieri. Queste proposte non hanno senso perché fissano e istituzionalizzano grandi numeri, tralasciando i casi specifici. Perché finanziare 100 progetti, se, per esempio, avessimo fra le mani il “progetto del secolo”? Va da sé che per rispettare queste regole i soldi andrebbero distribuiti, come detto prima, un po’ a caso.
Insomma lei auspica un rapporto più “diretto” e meno teorico fra istituzioni e università, nonché una maggiore autonomia di queste ultime
Precisamente. Ciò che trapela dalle intenzioni del Governo è il solito problema e cioè la sensazione netta che la politica e l’amministrazione centrale sappiano a priori che cosa sia giusto. Devo però avvisare che è piuttosto raro, per non dire inesistente, il caso in cui un politico, per quanto bravo, e un funzionario dello stato, per quanto efficiente, riescano a distinguere un progetto di ricerca meritevole da uno non meritevole. Non perché siano in malafede, ma perché non hanno le competenze. E quindi è bene che il giudizio spetti a coloro cui davvero compete. Per questo ribadisco una maggiore autonomia delle università.
Si pensa sempre che spendendo si ottengano le cose: l’università italiana e in generale il sistema pubblico italiano, sono un monumento all’idea che spendendo non si ottiene nulla.