Desidero partire dalla prima parte del documento della CDO: mi ha colpito soprattutto la giusta gerarchia fra gli oggetti, la precedenza dell’adulto che educa.

Chi è l’adulto, quando si trova di fronte un ragazzo? Egli è colui che riesce a cogliere nelle sue giuste dimensioni il bisogno del piccolo. Ogni padre sensato sa che il figlio non ha bisogno soltanto delle scarpe e del cibo, di condizioni di relativo benessere, ma di una positività che gli permetta di affrontare ogni prova della vita con la grinta necessaria: quella positività risiede prima di tutto nel rapporto che il padre ha con lui. Ogni genitore che non censuri la propria responsabilità sa benissimo che non può farsi un alibi di ciò che dà di materiale al proprio figlio, se non riconosce il vero bisogno e non risponde ragionevolmente: dedica attenzione, tempo, riconosce la sua identità come diverso da sé, gli pone dei limiti, lo accompagna e lo appoggia. Già l’idea dell’adulto come presenza positiva oggi è rivoluzionaria.



Anche a scuola questa posizione dell’adulto si traduce nella identificazione del bisogno vero del ragazzo: come si chiamano le cose che ho intorno ? A che servono ? Perché sono importanti e quale significato hanno attribuito nel tempo gli uomini alle cose ? Con quali strumenti (di pensiero, di organizzazione sociale, materiali) è possibile affrontare la complessità del mondo ? È quello che abbiamo sempre chiamato “senso”. Il senso delle cose: non un’ideologia fra le altre, non una parola d’ordine, ma semplicemente la risposta a un bisogno di avere ragioni adeguate per poter aderire all’essere: altrimenti non ci sarà intrapresa, non ci sarà responsabilità, non ci sarà creatività sociale e personale. Quest’idea di intrapresa mossa da una positiva adesione alle cose è la vera chiave di volta per tutto il resto, mentre la liquefazione dei rapporti e la mancanza di sfide vanno nella direzione contraria alla crescita.



In realtà, che la scuola dia una risposta del tutto parziale ai bisogni dei ragazzi è sotto gli occhi di tutti: dominano i giovani la noia e l’insoddisfazione, e spesso essi sopportano la scuola come un pedaggio necessario per accedere comunque alla vita adulta, un’enorme parentesi in cui stanno rinchiusi per anni. Ciò deriva in buona parte dal relativismo culturale degli insegnanti, una categoria che ha sistematicamente fatto del «non ho una verità da insegnare, una cosa vale l’altra» una garanzia di rispetto per i giovani, non accorgendosi di tradire tragicamente la loro aspettativa.



Ma non è solo il neutralismo il nemico dei giovani. Può essere una risposta ragionevole al proprio bisogno una scuola dove non si verifica mai se quello che si fa risponde alla domanda di sensatezza, dove le iniziative vengono lanciate a raffica e mai monitorate? Dove i risultati di apprendimento sono un optional? Dove i soldi sono spesi senza verificare l’efficacia e il raggiungimento degli obiettivi?

Dal punto di vista istituzionale, non incide meno sulla ragionevolezza di tutta l’operazione-istruzione-obbligatoria che i professori vengano messi in cattedra in modo semi-casuale, che le famiglie che iscrivono i figli in una certa sezione invece che in un’altra sperino nella buona stella, e si sappia fin dall’inizio che il titolo di studio è poco più che carta straccia. È necessario pensare anche al contesto in cui avviene il rapporto fra l’adulto e il ragazzo. Ecco perché parlare di valutazione esterna, di autonomia e libertà di scelta delle famiglie, di percorsi, di formazione degli insegnanti non è cosa diversa dal parlare di senso.

Di questo insieme di cose le materie scolastiche sono un aspetto, anche se centrale. Tanto per fare un esempio che mi compete, la padronanza linguistica, competenza numero uno fra le otto indispensabili per la vita attiva, passa certamente per gli insegnamenti scolastici. Il modo di esprimersi cresce insieme all’età: «quando ero bambino parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato» (S. Paolo ai Corinzi). Un ambito di sapere come la grammatica, ridotta a sapere astratto che fornisce al più categorie metacognitive di categorizzazione, non risponde al bisogno dei ragazzi. Osservare come funziona la lingua, quante mirabili possibilità di scelta offre in termini di risorse linguistiche per esprimere concetti e relazioni, e come la uso io, questo è umano. Sentire la differenza fra due frasi simili come «ho studiato, anche se ho preso un brutto voto» e «anche se ho studiato, ho preso un brutto voto» (tanto per mostrare l’incidenza della focalizzazione nel discorso) e decidere consapevolmente quale corrisponde al proprio stato d’animo, è indispensabile per la propria identità. Ma a scuola conta di più sapere che è una subordinata-concessiva-introdotta-da-congiunzione che non accorgersi di usarla tutti i giorni per lamentare lo scarto fra aspettative e realtà: la vita dentro le parole.

Lo sforzo da fare è quello di rendersi conto dall’interno, dalle classi e dai consigli di classe, che ci sono dei meccanismi bloccati nella scuola, un’ingessatura che impedisce il movimento anche ai migliori insegnanti, e provare a metterci mano una buona volta. Autonomia, valutazione, parità, formazione e carriera degli insegnanti: non sono parole d’ordine di qualcuno, ma cunei nel meccanismo per rimettere in moto il sistema. Non c’è più né destra né sinistra, né Gelmini né Fioroni, né Moratti né Berlinguer, ma tutti noi siamo uno, impantanati! Di solito si dice repetita iuvant, ma qui non sono bastati tentativi di cambiamento radicale come la legge dell’autonomia, la legge 62 sul sistema paritario di istruzione, la conferenza Stato-Regioni, il quaderno bianco di Fioroni e Padoa Schioppa: come se si dovesse sempre ricominciare il discorso da capo, e si sentisse ogni volta il dovere di difendere l’ineffabile unicità della scuola dall’aridità dei “valutatori esterni”, o dai poteri clericali, o dai nemici del liceo classico.

C’è molto da fare e non c’è tempo da perdere, non solo perché la stagione delle riforme non può durare in eterno (oltre tutto si fa fuori psicologicamente una generazione di insegnanti), ma soprattutto perché il tradimento delle aspettative dei giovani ha dei costi sociali e personali che una società non può permettersi di pagare. La società può ripartire da un atteggiamento ragionevole di fronte ai cambiamenti che prima di tutto sappia cogliere “di che si tratta”, e non lasci per miopia fuori dall’orizzonte quello che conta.