L’emendamento leghista alla legge di iniziativa parlamentare sulla nuova governance e sullo statuto giuridico dei docenti (A.C. 953 Aprea e leggi abbinate), rappresentato impropriamente dalla stampa nazionale come «obbligo della conoscenza del dialetto della regione in cui il docente intende insegnare» e ricondotto su queste pagine da Max Bruschi ad una boutade che però qualche fondamento potrebbe anche avere, deve essere colto come una provocazione a ripensare radicalmente la soluzione degli albi regionali, prospettata dal suddetto testo, ai quali i docenti abilitati sarebbero tenuti ad iscriversi sulla base del voto conseguito nell’esame di abilitazione.



Nella misura in cui questa formulazione rischia di dare adito all’equivoco per cui gli albi subentrerebbero come elenchi nominali e progressivi alle graduatorie provinciali in via di (virtuale?) estinzione, non vi è altro rimedio che di riportarli alla dimensione, in questo caso probabilmente utile, di albi professionali tramite i quali si riconosce niente di più che l’avvenuto conseguimento del titolo atto ad esercitare la professione. Punto.



Di fatto è questo il compito di un albo: garantire il cittadino rispetto al fatto che il titolare di una certa professione possiede tutti i requisiti per poterlo fare.

Depotenziato della sua affinità alle graduatorie permanenti dei docenti, radice primaria del precariato, l’albo professionale degli insegnanti addirittura starebbe a segnalare che chi vi è incluso è abile ad esercitare una “professione” e non ricoprire una “funzione” (è infatti questa, quella dell’impiegato statale, la definizione del profilo docente invalsa dai decreti delegati del 1974 all’ultimo contratto scuola 2006-2009). 



È proprio impossibile cominciare a pensare nel nostro Paese ad un sistema in cui sia rigorosamente separato il percorso di formazione/abilitazione del nuovo insegnante dal meccanismo del suo reclutamento per lento e inesorabile scorrere di graduatorie – così come si è verificato in gran parte fino ad oggi – e, dunque di attribuire alla persona dell’insegnante abilitato il diritto/dovere di far valere i titoli culturali e il proprio portfolio professionale per accedere liberamente a tutte le forme di assunzione previste dalla norma?

Se ad una certa cultura sindacal-assistenzialistica è quasi impossibile prenderlo in considerazione, occorre che certi meritori passi in avanti nella direzione di un vero e proprio sviluppo della carriera docente non subiscano il ritorno (e già da più parti deprecato).    

Il pdl Aprea e leggi abbinate prevede che «il reclutamento dei docenti delle scuole di ogni ordine e grado avviene mediante concorsi per titoli banditi dalle reti di scuole»: è implicito che in questo caso la titolarità del rapporto di lavoro passi dallo Stato centrale alle scuole autonome. Si è con ciò molto prossimi al titolo V della Costituzione che sancisce appunto l’autonomia delle istituzioni scolastiche, accanto a quella dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni.

Non vi sono infatti che due alternative: da una parte è la scuola autonoma a condizionare, sulla base delle sue necessità, l’assunzione dei docenti; dall’altra è il percorso di formazione iniziale dei docenti a condizionare il reclutamento degli stessi, inteso come una sorta di prolungamento della fase formativa nel limbo delle graduatorie, alias albi regionali in un’accezione che, come detto, è da correggere.

Tra l’altro, il tabù della nomina diretta sta crollando tra gli stessi addetti ai lavori, come dimostra il “Rapporto sulla scuola in Italia 2009”, curato dalla Fondazione Agnelli, nel quale è dimostrato che se il Sud diffida dei propri dirigenti scolastici e quindi teme “pastette” all’atto della chiamata (ma a questo si potrebbe ovviare facilmente non attribuendo ad essi l’esclusiva delle scelte), in altre regioni (Piemonte ed Emilia Romagna, p.es.) i favorevoli a tale metodo sono esattamente pari ai contrari, ed è statisticamente un dato di grande rilievo.

Il reclutamento bandito dalle reti di scuole corre in parallelo con l’articolazione del sistema nazionale della istruzione in percorsi liceali, tecnici e dell’istruzione e formazione professionale. In altri termini, se gli istituti tecnici riassumeranno, come è probabile, una loro specificità che in parte hanno smarrito, come non pensare ad un personale che sia preparato ad insegnare secondo profili più aderenti alle necessità dell’offerta formativa e del territorio? Ancora: come non pensare ad un personale che, in accordo con le regioni, sia professionalmente vocato per il canale dell’istruzione e formazione professionale? E così via.

Nello stesso tempo, come s’è accennato, questa forma di assunzione completerebbe, saldandosi senza sovrapporsi ad esso, il percorso di formazione del nuovo docente che dopo un percorso di preparazione disciplinare e di tirocinio formativo attivo, a cura paritariamente dell’università e della scuola, avrebbe i titoli per esercitare appieno le prerogative di un lavoro orientato alla cura formativa ed educativa degli alunni. V’è proprio da augurarsi che queste importanti opportunità (l’iter di formazione dell’insegnante e le modalità dell’assunzione) si realizzino in un quadro di piena valorizzazione delle persone e delle migliori esperienze di scuola in atto che si presentano oggi nel Paese.