Il gruppo parlamentare della Lega alla Camera ha presentato il 29 settembre 2008 la proposta di legge N. 1710, firmata da Cota, Capogruppo alla Camera, e da Goisis, rappresentante della Lega nella Commissione cultura, avente per oggetto “Nuove norme per il reclutamento regionale del personale docente”.
Il PdL è confluito in un testo unificato, sintesi di altri, di cui questo giornale ha già dato conto, che è stato bloccato alla fine di luglio del 2009 nella Commissione per dissensi tra Partito delle Libertà e Lega. L’oggetto del contendere è l’art. 11 del PdL Cota, che istituisce un Test di ingresso all’Albo regionale dei docenti – Albo previsto dall’art. 10 del PdL e dall’art. 12 del Testo unificato. Il Test verrebbe somministrato da un Comitato di valutazione regionale, di cui all’art. 13 del PdL Cota. Benché l’art. 11 del PdL Cota non parli esplicitamente della conoscenza del dialetto locale quale oggetto del test (Cota ha dichiarato che si sarebbe trattato di “una bufala”!) tanto le dichiarazioni dell’on. Goisis in Commissione quanto quelle ripetute di Bossi vanno nella direzione opposta: quella di un’obbligatorietà dell’apprendimento del dialetto a scuola. Il che implica un corrispondente obbligo di insegnamento.
I fumi ideologici che si sono sviluppati dall’incendio del dibattito, con la partecipazione di grandi firme sui quotidiani nazionali, hanno tuttavia impedito di vedere i contenuti della proposta della Lega e i suoi limiti. Che, è vero, non stanno nella fumosa e impraticabile proposta del dialetto obbligatorio. Infatti il dialetto è una lingua materna, la si apprende in casa, senza grammatica e senza testi letterari. Lo scrivente, che parla forbitamente il bergamasco degli anni ’50 di un’area linguisticamente ben determinata delle Prealpi orobiche, ha avuto bisogno della scuola sì, ma per imparare l’italiano, e non senza fatica. E se non si parla più in casa e nell’ambiente, non si potrà certo imporre il dialetto per legge! La proposta del dialetto ha svolto e svolge la funzione del drappo rosso davanti al toro della politica.
Ma vediamo il Testo del PdL. Esso è costituito da una relazione introduttiva e dall’articolato. La relazione spiega minuziosamente l’attuale regolazione della questione reclutamento, denuncia l’inefficienza del sistema centralistico di programmazione dell’offerta di insegnanti, l’eccedenza conseguente rispetto alla domanda, il ricorso sistematico alle sanatorie, la sottoproduzione inevitabile di precariato. A ciò va aggiunto il principio di anzianità come molla esclusiva dell’avanzamento retributivo. Su queste analisi da tempo convergono innovatori, esperti, riformisti audaci e timidi, conservatori “compassionevoli”.
Il centralismo non è in grado di rispondere in tempo reale alla domanda di docenti; perciò si riduce ad accumulare un marxiano “esercito di riserva”, cui il sistema può attingere a poco prezzo. Amministrazione e sindacati sono da tempo corresponsabili di questo stato di cose, la politica ha fatto da notaio ai loro accordi espliciti e sottobanco. La Lega propone il passaggio dalla programmazione amministrativa centralistica alla programmazione regionale. Dai concorsi statali ai concorsi regionali. Perciò propone l’istituzione degli Albi regionali, coerentemente con il nuovo Titolo V. Passo in avanti, sia chiaro, rispetto allo statalismo centralistico. Con due enormi problemi aperti.
Il primo riguarda l’autonomia delle istituzioni scolastiche, che proprio lo stesso Titolo V eleva a principio costituzionale. Se gli istituti scolastici autonomi non hanno la facoltà di selezionare direttamente il personale che esse ritengano più adeguato alla propria offerta educativa, non sono affatto autonomi. Sono autonomie eterodirette. Un ossimoro! La scuola autonoma è realmente tale, se indice il concorso sui posti vacanti attingendo all’Albo regionale – che serve ad evitare che i concorrenti riempiano uno stadio – e seleziona del personale, che deve dimostrare di avere una laurea e un’esperienza già verificata attraverso un praticantato tutorato e dichiarato positivo.
In questa ipotesi la scuola autonoma, a sua volta, deve essere rigorosamente valutata da un ente esterno, ad evitare l’anarchia totale dell’offerta. Il PdL Aprea propone gli Albi regionali, ma abilita le reti di scuole all’attingimento diretto dagli Albi regionali. Nella proposta della Lega, viceversa, l’art. 11 istituisce un Comitato regionale di valutazione, che impone un terzo filtro all’ingresso negli Albi regionali. Non bastano i titolo accademici e il praticantato. Si tratta di un Test ideologico, come si vede leggendo i due commi dell’art. 11 e alcune articolazioni del comma 2, in particolare a) e d): è l’accertamento del possesso da parte degli aspiranti docenti di tavole di valori, che neppure lo Stato si permette più di fare – lo faceva durante il fascismo – e che la Lega propone venga fatto su scala regionale.
E questo è certamente il lato più inquietante e più regressivo del PdL Cota. Il Comitato di valutazione regionale pretende di avere l’ultima parola. Ma chi, se non le scuole presso cui gli aspiranti docenti svolgano il praticantato tutorato o periodi congrui di prova, può selezionare adeguatamente? L’inquietudine aumenta, qualora si pensi alla composizione di tale Comitato regionale. È vero che tocca al Ministero, a norma dell’art. 13 del PdL Cota, stabilire le modalità di composizione. Ma è così impensabile che esso sia la risultante delle trattative politiche nazionali e regionali? Alla fine sarà la politica a nominarlo, cioè i partiti. È il modello PCUS di bolscevica memoria. Nel PdL Aprea l’Albo regionale è una misura tecnico-amministrativa; nel PdL Cota è un istituto ideologico.