Con la sentenza 18 luglio 2009 n. 7076, la Sezione III-quater del T.A.R. Lazio annulla le ordinanze ministeriali emanate dal ministro pro-tempore Giuseppe Fioroni per gli esami di Stato del 2007 e 2008, e degrada gli insegnanti di religione a docenti di serie B.

La discriminazione si concretizza nel fatto che la materia di quei docenti non potrà più influire sulla determinazione del credito scolastico degli alunni, e che gli stessi insegnanti non potranno più partecipare a pieno titolo agli scrutini.



Nel merito la questione appare alquanto pacifica e le argomentazioni dei giudici non brillano di solidità. Del resto, lo stesso Consiglio di Stato, in via cautelare, si è già espresso sul caso con l’ordinanza 12 giugno 2007 n.2920, dichiarando il ricorso di primo grado «non dotato di sufficiente consistenza». Molto probabilmente, in sede di appello, i giudici di Palazzo Spada confermeranno il proprio convincimento riformando la sentenza del TAR.



Quello che merita invece di essere evidenziato è la pervicace ostinazione dei giudici romani ad apparire alla ribalta delle cronache attraverso una pronuncia che rappresenta la quintessenza di un anticlericalismo ottocentesco e la sublimazione di un laicismo rancoroso.

E’ sufficiente leggere alcuni passi della sentenza per rendersene conto.

I giudici partono dall’assunto che «l’insegnamento di una religione qualunque essa sia (sia cattolica che di altri culti) non possa essere assimilata a qualsiasi altra attività intellettuale o educativa in senso tecnico del termine». E affermando ciò anticipano la risposta alla piccata reazione – che non si è fatta attendere – dell’ex ministro Fioroni. L’autore morale delle ordinanze annullate, infatti, ha difeso a spada tratta i propri provvedimenti («rientravano in pieno nel quadro normativo allora vigente e ci fu anche un pronunciamento favorevole del Consiglio di Stato») ed ha liquidato la sentenza del TAR con una domanda provocatoria: «Se un ragazzo oggi può prendere crediti dai corsi di danza caraibica e da quelli di cucina tirolese, perché non può ottenerli anche dal corso di religione o dall’ora sostitutiva?».



Per i magistrati amministrativi romani non è così poiché «qualsiasi religione – per sua natura – non è né un’attività culturale, né artistica, né ludica, né un’attività sportiva né un’attività lavorativa» e «salvo che in una teocrazia (di cui non mancano purtroppo esempi negativi anche nell’epoca contemporanea) la fede in un Dio non può essere –nemmeno indirettamente – qualificata come un’ordinaria “materia scolastica”, al pari delle altre». L’Italia come l’Iran. Il pacioso Fioroni accomunato al truce Ahmadinejad.

Ma questa non è la sola perla che orna la discutibile sentenza del TAR Lazio. Il Collegio giudicante, non potendo fare a meno di delineare i confini della cosiddetta “laicità”, premette che «in linea generale, il concetto di separazione tra la sfera religiosa e quella civile (cfr. Vangelo S. Matteo 22, 15-21) è stato uno dei preziosi contributi della Cristianità alla civiltà occidentale». Nella mia più che ventennale esperienza forense mai mi era capitato, finora, di rinvenire in una sentenza la puntuale citazione di un testo sacro come precedente giurisprudenziale, che nel caso di specie, atteso il contesto, rischia di sconfinare nel comico involontario.

Posta la premessa, dopo il precedente evangelico, il collegio del TAR invoca il più laico precedente della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 25 maggio 1993, n.230) per sostenere che uno Stato «non può conferire ad una determinata confessione una posizione “dominante” – e quindi un’indiscriminata tutela ed un’evidentissima netta poziorità – violando il pluralismo ideologico e religioso che caratterizza indefettibilmente ogni ordinamento democratico moderno (Corte europea dir. uomo , 25 maggio 1993, n. 260)».

Sotto questo profilo, la giurisprudenza comunitaria appare ai magistrati romani del TAR una miniera inesauribile: «In coerenza con i valori fondanti della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, in una società al cui interno convivono differenti credenze religiose è necessario conciliare gli interessi dei diversi gruppi e garantire il rispetto delle convinzioni di ciascuno (arg. ex Corte europea dir. uomo, 31 luglio 2001), e non può manifestare una preferenza per una particolare confessione o credenza religiosa, ma deve garantire il suo ruolo di arbitro imparziale (cfr. Corte europea dir. uomo, 10 novembre 2005)».

Poco importa che in Italia esista il Concordato tra Stato e Chiesa Cattolica. Dettaglio insignificante per i giudici, i quali ritengono che «in una società democratica, al cui interno convivono differenti credenze religiose, certamente può essere considerata una violazione del principio del pluralismo il collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico e quindi con un’implicita promessa di vantaggi didattici, professionali ed in definitiva materiali».

Per il TAR Lazio le famiglie laiche o degli alunni stranieri appartenenti ad altre confessioni non devono essere di fatto costrette «ad accettare cinicamente e subdolamente l’insegnamento di una religione cui non credono, ovvero a subire un’ulteriore discriminazione di carattere religioso, che si accompagna e si aggiunge spesso a quelle di carattere razziale, economico, linguistico e culturale».

Nella preferenza alla religione cattolica si nasconde la sentina di tutti i mali.

La verità è che nella sentenza del TAR Lazio si annida il germe insidioso del pregiudizio ideologico, ancor più pericoloso in quanto associato ad una malcelata ricerca di notorietà mediatica. Così i magistrati corrono il rischio – paventato dal grande Piero Calamandrei – di emulare Erostrato, pastore greco ossessionato dall’ansia di essere ricordato dai posteri, che per diventare celebre e passare alla storia arrivò al punto di incendiare il tempio di Diana Efesia. «Si possono dunque trovare magistrati» si chiedeva retoricamente Calamandrei «così assetati di fama da essere disposti a far crollare la giurisprudenza sulla testa dei giudicabili, per avere il gusto di vedere pubblicata sulle riviste col loro nome la sentenza sovvertitrice?».

Dalla lettura di alcune pronunce parrebbe proprio di sì.