Con l’approssimarsi dell’inizio d’anno scolastico e di fronte alle contraddizioni evidenti del reclutamento di docenti e dirigenti, in questi giorni un leader sindacale dei presidi, alcuni politici, altri sindacalisti e direttori regionali invocano come soluzioni le limitazioni territoriali, il ritorno a concorsi unici nazionali o la ripresa di regolare triennalità dei vecchi concorsi.



Il progetto ministeriale per la formazione dei futuri docenti viene presentato come volutamente separato da ogni soluzione del problema del reclutamento, lasciando così ai giovani futuri insegnanti un’indecente aleatorietà.
Per settembre si teme seriamente un avvio d’anno scolastico ancora più difficile del precedente. Si ricomincia con quasi 300.000 precari. A fronte di 8.000 nomine in ruolo di docenti, i pensionati sono esattamente il triplo.



Buona parte dei dirigenti neo-reclutati (quasi tutti ex presidi incaricati che, per stranezza amministrativa, precedono i vincitori del concorso ordinario) appena potranno, chiederanno legittimamente di tornare nelle regione natia.
Nelle grandi province, come avviene da anni, le nomine iniziano a fine agosto e con i supplenti si concluderanno (speriamo!) a novembre.

L’anno scorso circa 200.000 docenti hanno cambiato posto a gennaio, per il ritardo delle nuove graduatorie. Nel mio istituto, un professionale del milanese, ho visto diverse cattedre dove si sono succeduti in un anno tre-quattro docenti per ognuna. Si tratta del più grande (e persistente) carosello italiano.



L’unica via d’uscita da questa crisi istituzionale, verso la ripresa di qualità della scuola italiana – lo dicono in molti – è la piena autonomia delle scuole. Ma occorre dare concretezza a questo principio.
Il primo dei sei cardini dell’autonomia è il passaggio graduale all’assunzione diretta da parte delle scuole di docenti e dirigenti.

Gli altri cardini (come impariamo dai migliori sistemi) sono: un Consiglio di Amministrazione che leghi le scuole alle comunità locali; una nuova figura di direzione scolastica con maggiori poteri; l’assegnazione diretta di tutti i fondi al bilancio di istituto con responsabilità di gestione; un sistema pubblico e trasparente di valutazione delle scuole; l’abolizione del valore legale del titolo di studio; un regime “europeo” di regolata competizione tra scuole statali e paritarie, che garantisca la reale libertà di scelta educativa da parte delle famiglie.

Un’ottima base di partenza per arrivare, anche in forma “bipartisan” a queste scelte è il testo del Progetto di Legge che vede come primo proponente l’on. Aprea.
L’idea dell’assunzione diretta (certo non nuova) ha tutte le gambe per risolvere le contraddizioni del sistema attuale. Il dirigente scolastico (a sua volta assunto con contratto quinquennale dall’ente gestore) dovrebbe presiedere una commissione composta da docenti “senior” della scuola e da un ispettore del sistema regionale di valutazione (anche questo da costituire).

I concorsi, indetti dalle istituzioni autonome o da reti di queste, permetterebbero una conoscenza diretta degli aspiranti, i quali dovrebbero (come sostiene Fabrizio Foschi) appartenere a un albo professionale (nazionale, regionale o provinciale non importa) attraverso una formazione iniziale, dove attività di “insegnamento formativo al lavoro” occupino la metà del tempo e siano valutate da una istituzione scolastica che compaia nel curricolo del candidato.

Invece di occuparsi di questo e degli altri cardini concreti dell’autonomia, ci si continua a occupare di riforma dei cicli, di quadri orari delle superiori, di materie da mettere o da togliere. Aspetti che debbono invece appartenere all’autonomia organizzativa e didattica delle scuole, fatte salve le competenze terminali di tutto il ciclo, stabilite a livello nazionale. Come avviene nei paesi in vetta alle classifiche OCSE.

Non è del tutto vero poi che per la dirigenza scolastica non ci siano nuove proposte di reclutamento. La situazione degli ultimi dieci anni ha fortemente deluso i migliori: la contraddittoria vicenda dei concorsi a preside dal 2002, tutto il balletto di modifiche legislative, sanatorie, ricorsi che ne è seguito sono una scoraggiante conferma di una selezione poco dignitosa per una figura chiave della scuola.

È bene dirlo con chiarezza: in Italia non potremo mai avere un apparato amministrativo nazionale o regionale pubblico efficiente come quello francese. Quindi la ricerca di vie serie ed efficaci di reclutamento, anche della dirigenza di scuola, non può andare nella direzione di strumenti organizzati dall’apparato centrale o periferico.

Fino a tutt’oggi è stato poco valutato e condiviso il passaggio all’assunzione diretta del dirigente scolastico da parte delle scuole autonome, come avviene per le funzioni direttive degli enti locali o sanitari. È bene che se ne comprenda la ragione: mentre per i docenti occorrono poche modifiche normative, per la figura direttiva occorre prima risolvere il problema cruciale del soggetto di governo della scuola, che solo potrà provvedere all’assunzione diretta del preside. Questo è oggi il cardine più critico per l’attuazione dell’autonomia scolastica.

Nell’attuale situazione di debolezza dei Consigli di Istituto della scuola statale chi fa le scelte di indirizzo e governa è, di fatto, il dirigente scolastico. Si tratta di una situazione distorta che, non a caso (col sostegno di certo sindacalismo di presidi) nella prima stesura del PdL Aprea aveva portato a indicare il preside come capo del nuovo Consiglio di Amministrazione, quasi a sancire uno stato di fatto. Si trattava di un errore: in ogni impresa o ente, specie di servizi alla persona, il soggetto gestore e mandatario degli indirizzi generali è necessariamente diverso dalla funzione di direzione e attuazione degli stessi.

È positivo che (come dall’inizio DiSAL chiedeva) questa soluzione sia stata accantonata nelle ultime versioni. Ma purtroppo fin’ora manca nella consapevolezza collettiva la chiarezza (come dicevamo nel nostro Convegno del 2005) su “chi debba governare le scuole autonome”.
La scelta di nuove figure direttive non può più essere lasciata ai concorsi statali incapaci di verificare merito e competenze, specie relazionali necessarie nella scuola.

La triste vicenda dell’ultimo concorso in Sicilia, con tutto il contorno di contenziosi e scandali; l’improvvisa idea dell’Amministrazione di ribaltare questa volta il criterio di reclutamento dei dirigenti scolastici usato lo scorso anno (alla faccia della certezza del diritto), non ne sono che le ultime penose conferme di un sistema contorto, dispendioso e improduttivo.

Anche un dirigente scolastico attento osservatore come Giani Gandola giunge a riconoscere che è proprio questo sistema di reclutamento che va cambiato. Ma, come sostiene Giovanni Cominelli, il panorama delle proposte non esce dall’impostazione statalista. Non esiste quindi altra via d’uscita. Il problema di una buona direzione di scuola non si risolve con i limiti territoriali o con ottocenteschi concorsi nazional-regionali: ne ho fatti quattro e potrei dilungarmi con amenità sull’aleatorietà che ho verificato di persona.

Una verifica delle competenze, complesse e molto più ampie di quelle che occorrevano trent’anni fa può essere fatta solo direttamente da parte di chi assume. Chi vuole effettivamente la ripresa della scuola italiana, metta mano innanzitutto all’autonomia delle scuole, con i sei cardini ricordati. C’è da sperare seriamente che la gravità della situazione, la passione comune alla scuola, quindi al futuro dei nostri giovani, prima ancora che della nazione, aiuti a resistere alle “sirene” dell’ideologia e delle corporazioni, favorisca la ripresa di discussione del PdL Aprea: è una delle ultime occasioni, in quanto contiene elementi condivisi tra varie parti, ben più di quanto si dica.

Per queste modifiche si sta battendo DiSAL, che chiede alle migliori figure della politica, del sindacato, dell’amministrazione e della società, passione comune, realismo e coraggio del cambiamento.