Nell’ultima settimana di agosto gli alunni “debitori”, dall’inizio di settembre gli insegnanti, dalla metà di settembre tutti saranno imbarcati per il viaggio del nuovo anno scolastico 2009-10. Il vecchio anno consegna a quello nuovo una zavorra pesante di problemi, irrisolti e nuovi.
Quelli nuovi sono tutti riducibili alla politica di bilancio, inaugurata l’anno scorso da Tremonti, che ha avuto quali effetti principali una diminuzione delle cattedre, un aumento degli alunni per classe, una riduzione delle supplenze, un calo dei finanziamenti alle scuole, un aumento dei loro crediti verso l’Amministrazione. Benché i tagli siano, in realtà, inferiori a quelli previsti, i sindacati sono sul piede di guerra e minacciano scioperi fin dal primo giorno. Avendo chiesto e ottenuto per lunghi decenni la moltiplicazione dei pani e dei pesci delle cattedre, fanno ora fatica ad accettare la normale regola di buon senso – oltre che di mercato – per la quale l’offerta di insegnanti non possa essere superiore alla domanda. Nella vasta terra di nessuno che si estende tra domanda e offerta è attendato il numeroso e tragico esercito di riserva di docenti dal curriculum precario e inverificato, di cui tuttavia il sistema ha bisogno per chiudere i buchi della programmazione fallimentare che esso stesso apre. Nuove modalità di formazione e reclutamento dei docenti centrate sulle autonomie scolastiche dovrebbero eliminare per sempre un problema che si presenta puntuale da decenni. Se n’è discusso a lungo su questo giornale in questi giorni, le soluzioni sono elementari. Finora, però, non si intravede la volontà politica di sciogliere i nodi. Dei due stadi del razzo, rappresentati da formazione iniziale e reclutamento, il governo ha deciso di accendere il primo, mentre la maggioranza di governo ha spento il secondo, bloccando il PdL Aprea. Difficile, a questo punto, prevedere se il razzo partirà e se raggiungerà la sua luna invece che perdersi nell’infinito vacuo.
L’altra catena di problemi nuovi è quella della impropriamente nominata “riforma delle superiori”, che dovrebbe entrare in vigore dal 2010 e che perciò deve essere attiva dal gennaio 2010. I Regolamenti dei Licei, dell’Istruzione tecnica e dell’Istruzione professionale prevedono la diminuzione da una punta massima di 36 a una minima di 30 ore di lezione e una riduzione del numero abnorme dei 720 indirizzi e di conseguenti esami finali e, soprattutto, una diminuzione di materie e ore. La ciambella ha solo metà buco: perché la diminuzione delle ore non pare essere guidata da un’idea di nuovo curriculum, in cui si distingua l’essenziale dal complementare. Mancando tale idea, l’operazione si può iscrivere sotto la voce delle sacrosante “esigenze di bilancio”, ma non ha forza trainante sul piano culturale; ne ha molta, invece, sul piano conflittual-sindacale. Per di più le Regioni chiedono di metter parola sul Regolamento per l’Istruzione professionale: essa è competenza loro a norma del Titolo V, ma la lobby ministeriale la tiene gelosamente stretta. Cammino accidentato, dunque.
L’attenzione di politici, ministeriali, esperti, sindacalisti, giornalisti è monopolizzata da questi aspetti immediati: si tratta di “amministrare”, come ogni anno, l’avvio dell’anno scolastico, scontando agitazioni, scioperi, un po’ di piazza, dichiarazioni improbabili, previsioni fasulle sull’ennesimo “nuovo ’68” e, finalmente, la pace post-natalizia. Così passerà, anche quest’anno, ‘a nuttata! Ciascuno ha le proprie poste in gioco: i politici il consenso, i ministeriali il potere amministrativo, gli esperti le proprie “fisse”, i sindacalisti le tessere, i giornalisti qualche notizia “estrema”… Ma per chi manda i figli a scuola la domanda più semplice, più radicale, più inquietante all’inizio dell’anno di grazia 2009-10 è: «i miei figli crescono in età e grazia, ma in sapienza? imparano la lingua, la storia, la matematica, le scienze…?». La risposta monotona e sconsolante, la risposta storica e fattuale dei dati ufficiali – tra cui quelli recentissimi dei test di ammissione all’Università – è: «sempre meno». Apprendimenti, educazione, stare nel mondo «in libertà e responsabilità»: sempre meno. La sensazione scoraggiante è che molte parti della società civile e della politica, immobili in una paralisi biunivoca – che i politologi chiamano pudicamente “consenso” – si siano ormai rassegnate al “nichilismo senza abisso”, che funge da desolante “Koinè” dei costumi, dei mass media, della cultura. Lo scenario è quello di una società corporata, chiusa nella difesa del bene “particolare”, e di una politica intenta alla composizione corporativa degli interessi in campo, mentre riduce il “Bene comune” a retorica comiziale. Scuotere questo blocco è possibile per piccoli cambiamenti quotidiani, non per annuncio di palingenesi. Ma solo lo sforzo di costruire la condizione in cui non solo “maestro e discepoli”, ma anche società e politica siano “figli di una sola speranza” può innescare quei piccoli cambiamenti.