Superando il muro acustico creato dalle assordanti discussioni sul “taglio degli organici”, nella primavera scorsa sono filtrate anche in Italia notizie su alcuni importanti cambiamenti in atto in sistemi scolastici, da sempre qui da noi ritenuti all’avanguardia.
In Finlandia viene rimessa in discussione la struttura modulare del triennio finale degli studi superiori. L’elemento più caratteristico della scuola superiore finlandese, dai buoni risultati, ma per lo più molto tradizionale, è la sua struttura. I corsi delle varie materie sono organizzati in veri e propri moduli autonomi che lo studente può comporre a piacere, sia pure rispettando le propedeuticità; le ripetenze sono annullate e chi non supera un corso lo può ripetere. La struttura della classe fissa è sostituita da quella di gruppi che si formano per i periodi di frequenza dello stesso modulo.
Dopo alcuni anni di esperienza, però, si inizia a registrare il fatto che pochi studenti concludono gli studi in due anni e molti non ce la fanno neppure nei tre previsti. Soprattutto i maschi abbandonano il liceo così strutturato e si orientano verso gli studi professionali. La responsabilità e l’autonomia necessarie per orientarsi positivamente in un simile contesto sembrano essere patrimonio soprattutto delle ragazze. La tendenza è perciò quella di rinforzare le funzioni di orientamento e di reintrodurre, sia pure gradualmente e parzialmente, percorsi di studio obbligatori e strutturati.
In Svezia si ripensa alla riforma di 10 anni fa, che aveva di molto allargato la parte generalista degli studi. Il risultato non è stato l’incremento degli studi universitari, ma l’aumento di ripetenti e di abbandoni, soprattutto da parte della popolazione maschile. Ora si pensa ad una rivalorizzazione della formazione professionale. I responsabili politici affermano che per troppo tempo la politica scolastica si è occupata degli studi teorici e che ora si concentreranno sui programmi professionali, attribuendo più tempo alle materie professionali nei corsi professionali e più importanza al settore “business”. Il viraggio è importante, perché il mito di un curriculum studi generalista, come strumento e segnale al tempo stesso di equità sociale, arriva storicamente da quelle latitudini.
L’impressione, dopo 50 anni di pedagogia “progressista” e di riforme ad essa ispirate, è che l’impianto della ratio studiorum che ne è uscito sia tagliato sulle aspettative e le caratteristiche di un’intellettualità piccolo-medio borghese europea. La realizzazione democratica della scuola di massa potrebbe essersi accompagnata all’ipotesi di offrire o imporre a tutti stilemi pedagogici maturati nella prima parte del secolo, all’interno di una minoranza intellettualmente elitaria.
Ma le aspettative circa i livelli di alfabetizzazione effettivamente raggiunti dalla massa della popolazione, dopo 50 anni di significativi investimenti qualitativi e quantitativi, sono andate deluse. L’indagine OCSE-ALL (Adult Literacy and Life Skills) sull’alfabetizzazione degli adulti, condotta a macchie di leopardo a livello internazionale, anche per le sue difficoltà di realizzazione, ha rivelato vaste plaghe di scarsa o nulla alfabetizzazione funzionale – quella che non si limita a decifrare i segni, ma permette di comprenderne il significato. La stessa indagine PISA, dopo la prima edizione del 2000, ha dovuto abbassare il livello di accettabilità; differentemente avrebbe dovuto dichiarare funzionalmente analfabeta la decisa maggioranza dei quindicenni testati.
A livello delle teorie pedagogiche, il sociocostruttivismo ha generato, nei paesi in cui è stato seriamente applicato, dopo un’abbastanza lunga esperienza, un’opposizione significativa non da parte degli addetti ai lavori, ma da quella dei cittadini genitori, perché sembra essere efficace soprattutto se utilizzato nella formazione dei ceti sociali con accesso privilegiato alla cultura. Dubbi analoghi serpeggiano anche a proposito del cosiddetto metodo globale.
L’ampliamento dell’importanza e del peso delle discipline generaliste, anche oltre la storica fascia dei 13-14 anni, con i lodevoli fini del miglioramento del “capitale umano” e/o della democratizzazione della società non è stato sempre accolto positivamente dagli strati sociali che fino agli anni Settanta ne erano stati esclusi. In particolare, sembra accertata la difficoltà di comprenderne l’utilità da parte dei maschi autoctoni dei diversi paesi europei, gli stessi che non sempre sembrano corrispondere alle aspettative relative al loro senso di responsabilità e di autoorientamento. Non si tratta però, fortunatamente, di fasce troppo ampie di irrecuperabili, perché gli stessi soggetti si mostrano a loro agio su altre competenze, in altri contesti educativi e magari in altre fasce di età, riuscendo in tal modo a dare il loro contributo alle società in cui vivono.
È forse dunque da ripensare l’universalizzazione di un modello di scuola inteso come “circolo di cultura umanistico-letteraria” troppo radicalmente transitato dai vecchi stili di formazione costrittivi e deresponsabilizzanti a quelli nuovi, troppo ottimisti circa la facile perfettibilità di adolescenti che crescono in società ricche e permissive.