Non poteva che essere una boutade la proposta leghista di una prova di accesso con elementi di conoscenza dialettale ai futuri albi regionali degli insegnanti. E, infatti, le dichiarazioni successive ai titoloni della stampa hanno messo le cose al loro posto e hanno evidenziato come le preoccupazioni reali dell’onorevole Paola Goisis e dell’onorevole Roberto Cota siano tutt’altro che peregrine.
La materia del contendere, in effetti, è un’altra, resa incandescente dalla prossima immissione in ruolo, nelle scuole settentrionali, di centinaia di dirigenti scolastici meridionali figli non di un concorso, ma di una megasanatoria targata Prodi-Fioroni della quale non si è potuto fare altro che prendere atto. Figli, insomma, del lassismo nelle selezioni e delle graduatorie che governano l’istituzione scolastica, sistema perverso in base al quale cattedre, trasferimenti, stipendi sono assegnati non in base al merito, ma all’anzianità di servizio, all’avere parenti in condizioni (vere o presunte) di disagio, ad autentiche tasse improprie, come il sostegno “coatto” agli alunni con disabilità o la partecipazione a costosi corsi di (im)perfezionamento, magari on line. Fino agli estremi di insegnanti che, per qualche punticino in più, erano (sono?) costretti a pagare il pizzo a qualche rapace preside di scuola privata o a qualche funzionario corrotto.
Sbaraccare questo mostro iniquo e costoso, ipocrita e criminogeno è un grido che corre trasversalmente e che sembrava aver trovato risposta nel progetto di legge Aprea. All’apparenza, tutto chiaro. Dopo aver conseguito l’abilitazione, l’aspirante docente sarebbe stato inserito in albi regionali e reclutato attraverso concorsi per titoli promossi da reti di scuole, triennio di prova e successiva conferma. Finalmente un’autentica valorizzazione dell’autonomia, cui il sistema nazionale di valutazione avrebbe impedito tentazioni clientelari. Tradotto in termini crudi ma reali, se hai docenti asini, la colpa è solo tua, non del destino e della graduatoria cinica e bara che te li hanno scucchiaiati in bidelleria.
Ma le graduatorie sono come l’Idra di Lerna: tagli loro una testa, ne rispuntano due. Ed ecco che, nell’ultima formulazione del disegno di legge, fa capolino un inciso che, scomparsa dal testo la valutazione positiva dell’anno di applicazione, rischiava di mutare il riformismo in un grottesco “facite ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora”. L’iscrizione all’albo avverrebbe «sulla base del voto conseguito nell’esame di abilitazione», il concorso da parte delle reti di scuole in base a “titoli” (e cosa costituisce titolo, se non appunto il voto di abilitazione?) creando di fatto l’ennesima graduatoria che sarebbe impossibile, per le scuole, non rispettare, pena ricorsi e sconfitte davanti a qualunque tribunale amministrativo. Correttamente, il primo testo Aprea indicava voto di abilitazione e valutazione dell’anno di prova come «requisiti» per partecipare ai concorsi.
E siccome la Lega punta il dito sulla manica larga degli atenei meridionali, eccola proporre una prova supplementare che, basta leggere il disegno di legge presentato da Roberto Cota e Paola Goisis alla Camera e da Mario Pittoni al senato, testualmente, inserisce i docenti negli albi regionali in base al risultato ottenuto in un test di ingresso formulato «per verificare la conoscenza e la consapevolezza dei valori, degli scopi, degli obiettivi e dei requisiti generali dell’insegnamento» (articolo 11, AC 1710). Niente dialetto, dunque. Non sarebbe teoricamente una cattiva idea. Ma siamo ancora alla graduatoria e al tentativo, generoso ma forse impraticabile, di voler dare una base scientifica a una valutazione che può essere fatta solo sul campo. La capacità di trasmettere conoscenze, di “fare segno” non mi sembra misurabile attraverso un test, ma solo nella realtà della relazione dell’insegnante con le persone che ha di fronte a sé.
E siamo all’altro corno del problema, distinto ma non distante: a una formazione iniziale dei docenti pensata per fornire conoscenze disciplinari, didattiche e pratiche e a un esame di abilitazione che compia (altrimenti, che abilitazione sarebbe?) una prima valutazione di quelle conoscenze e consapevolezze giustamente richiamate da Cota e Pittoni e di cui tante volte ho parlato con Giorgio Israel, con gli altri amici del gruppo di lavoro, con Fabrizio Foschi e Luciano Clementini, con Elena Ugolini e con le associazioni del mondo della scuola, raggiungendo un “idem sentire” che ha portato alla stesura finale del documento.
Consegnare alle scuole dell’autonomia docenti ottimi tra cui scegliere liberamente mi sembra un’ipotesi su cui i volenterosi di ogni schieramento politico potrebbero, oggi, convergere.