Primo giorno di scuola. Comunque la si metta è un giorno invero strano e sempre nuovo. Stamattina pioveva e, abitando fuori Milano, per raggiungere la scuola ho deciso di prendere il treno. Mentre puntavo assonnato la stazione mi sono ricordato che il treno delle 7.30 mi fa spesso arrivare con dieci minuti di ritardo. E l’anno scorso, qualche volta, è capitato. Ho quindi repentinamente deciso di usare l’auto, ma poi ho visualizzato l’infinita coda di macchine immobili sotto l’acqua. Sono allora tornato a casa e ho preso la moto. E sono arrivato a scuola puntuale e fradicio.



Non sono un entusiasta cronico del mio mestiere. E molti studenti a giugno li tollero come le mosche che circondano la mia tavola apparecchiata in campagna. Né mi sono immolato in moto perché avessi rispolverato motivazioni o ragioni personali parcheggiate in qualche angolo dei miei emisferi o perché da giorni vivessi una sfibrante, entusiasta e impaziente attesa del nuovo inizio. Semplicemente, si impone il fatto che il primo giorno di scuola è il giorno dell’incontro con delle facce.



La quasi totalità degli allievi esce di casa perché deve farlo e ha ben chiaro che deve passare molte ore in un luogo altamente antitelevisivo quindi, per definizione, probabilmente noioso e poco stimolante. È un luogo cioè dove non si parla sempre e comunque semplicemente perché si vuole comunicare, è un ambiente ove occorre ascoltare, dove si è sollecitati ad apprendere anche facendo fatica. È inoltre un posto dove vigono delle regole e si pone un’autorità. E naturalmente questo è vero anche per il più ideologico dei docenti libertini e progressisti che per poter declamare la sublime gioia di un mondo di eguali senza regole opprimenti, di fatto agisce un ruolo che gli permette declamare i propri sermoni perché normato e normativo. E spesso i ragazzi se li sorbiscono senza reagire.



Quale grave difetto arrogarci l’idea che questa nuova generazione di giovani sia per principio peggiore della precedente. Ma tant’è. Oltre e dentro tutto questo, la scuola soprattutto è un luogo, e non sembrano rimanerne tanti, dove è ancora possibile sperimentare la responsabilità della parola. Il peso e il valore delle parole dette a e per qualcuno. Il professore non parlerebbe se non ci fossero le facce degli studenti a cui si rivolge. Ecco perché il primo giorno di scuola è sempre una novità. Per me è la scoperta delle nuove facce che saranno il mio mestiere. E la mia faccia dovrà veicolare qualcosa di così straordinario che se ci si ferma a pensarci un secondo non si può poi che convenire sul fatto che l’insegnamento sia il mestiere più bello del mondo. Cercherò di rendere testimonianza a loro che via sia una profonda convenienza a diventare adulti. Era quindi urgente esserci oggi.

Come si potrebbe preferire al primo giorno di scuola una protesta? L’unica protesta che si dovrebbe organizzare è quella contro quanti non ci aiutano a rendere ogni giorno dell’anno bello come il primo giorno di scuola. A volte, noi docenti, vorremmo chiedere un aiuto in questo senso. Vorremmo che la politica, le istituzioni, il mondo sociale e soprattutto le famiglie ci aiutassero in quello che facciamo. Vorremmo organizzarci per una battaglia culturale. Per inscenare un corteo, per distribuire manifesti. Ma finisce spesso che la campanella ci ricorda che delle facce ci aspettano. E che abbiamo qualcosa di importantissimo da fare.

(Daniele Primavesi – insegnante di Italiano al Liceo San Raffaele di Milano)