L’annuale rapporto dell’OCSE Education at a Glance 2009, basato su rilevazioni effettuate nel 2007, offre una serie interessante di dati comparati sulle condizioni di insegnamento e apprendimento vigenti nei 30 Paesi associati, tra cui l’Italia.
Gli Indicatori D3, D4, D5, D6 – che spaziano dal tema della retribuzione degli insegnanti al tempo da loro dedicato all’insegnamento, fino alle valutazioni che ricevono sul lavoro che svolgono e alla influenza delle loro attitudini e convinzioni sulle motivazioni dei loro studenti – disegnano in modo netto alcune caratteristiche della professione docente che da noi si presentano in modo piuttosto anomalo e perciò meritevole di una profonda revisione.
Cominciamo dallo stipendio, che il rapporto individua come uno di quegli elementi che contribuiscono ad attrarre, sviluppare e trattenere insegnanti preparati e motivati. Qual è il quadro complessivo?
Risulta che gli insegnanti meglio pagati al mondo sono quelli del Lussemburgo (nel Rapporto le cifre sono in dollari, ma il cambio in euro è presto fatto): 48.000 euro a inizio carriera e 82.000 al top dell’incarico lavorativo. Da notare che in numerose realtà nazionali esiste un progresso stipendiale con notevole salto tra inizio e fine dell’attività lavorativa: in Spagna il docente iniziale percepisce circa 27.000 euro e alla fine del percorso ne riceve quasi 41.000. In Francia si va da meno di 21.000 a circa 34.000. Nei paesi Ocse, i salari della primaria, e secondaria di primo e secondo grado dopo 15 anni di carriera sono in media del 36%, 35% e 39% più alti, rispettivamente del livello iniziale. Al top le differenze sono del 71-73%.
In Italia un docente di ruolo di scuola secondaria di primo grado percepisce all’inizio della carriera circa 21.500 euro, che diventano circa 25.500 dopo 15 anni di esperienza lavorativa e poco più di 27.000 a conclusione della carriera. Ciò significa che dopo 35 anni di servizio, il medesimo docente (o per meglio dire “la” docente, considerato un tasso di femminilizzazione dell’82%) che magari ha due figli a carico percepisce – considerando le ritenute assistenziali e previdenziali sullo stipendio base – non più di 1.800 euro netti, da cui devono essere però sottratte le ritenute degli Enti locali. Siamo intorno ai 1.600-1.700 euro per 13 mensilità.
È importante constatare come la struttura del salario sia un indice dell’esistenza o meno di uno sviluppo professionale docente. In numerosi Paesi l’esperienza di insegnamento e la qualificazione degli insegnanti condizionano la loro scala salariale. Si avanza, cioè, non solo per anzianità, ma anche per come si è inteso qualificare la propria professione ed anche sulla base di certi risultati ottenuti.
In Inghilterra, per esempio, influiscono sullo stipendio, oltre alla progressione per anzianità di servizio, anche le responsabilità che l’insegnante si assume, oltre ai compiti a lui strettamente attribuiti, in particolari contesti della classe o dell’istituto: insegnamenti aggiuntivi, incarichi particolari come la funzione di tutor di altri insegnanti, docenza in situazioni di disagio, competenze riconosciute in particolari ambiti e quant’altro.
Si tratta di esperienze niente affatto sconosciute agli insegnanti italiani, ma il presupposto che permette di marcare una differenza anche giuridica nella configurazione della professione è se si tratti di funzioni assegnate e remunerate di volta in volta (così è da noi, vedi le “funzioni obiettivo”) oppure di declinazioni della vocazione professionale scelte una volta per tutte e attinenti un certo livello della carriera (è il caso di gran parte dei membri Ocse).
In Italia, dove una carriera docente, giuridicamente rappresentata, non esiste, lo stipendio è maggiorato (di poco) solo per mezzo di incentivi che non costituiscono delle articolazioni della professione.
Un’altra dimensione della professione di insegnante che il rapporto aiuta a chiarire (cfr. D4) è la differenza tra tempo di insegnamento (teaching time) e tempo dedicato ad attività ad esso associate come la correzione dei compiti e la preparazione delle lezioni (working time). Le ore di insegnamento nella scuola secondaria di primo grado vanno da un minimo di 545 ore all’anno in Corea ad un massimo di 1080 negli Stati Uniti. Ma non è questo il punto. Interessa qui evidenziare la tendenza di alcuni Paesi (tra gli altri, Australia, Belgio, Danimarca, Inghilterra, Lussemburgo, Portogallo, Spagna, ecc.) a regolarizzare per contratto il tempo non direttamente utilizzato per insegnare, in cui l’insegnante è a disposizione nella scuola. Un particolare che, se entrasse da noi a far parte di una qualche contrattazione, farebbe certamente discutere.
Alla questione, poi, se gli insegnanti italiani siano pronti per fare il salto da una condizione impiegatizia, nella quale li relega il contratto di lavoro, ad una posizione più simile a quella dei loro colleghi europei e di molti altri contesti, risponde con la forma del paradosso un dato contenuto in D5: il 55% di loro confessa disagio per il fatto di non essere valutato nelle prestazioni e nel rendimento che esprime. Se ne deduce che il feedback del lavoro svolto aumenta la soddisfazione nell’impegno assunto, lo rende più significativo e, a certe condizioni, è auspicato.
Infine, in D6, il rapporto tocca un tema alquanto delicato, inerente l’incidenza delle convinzioni e attitudini dell’insegnante sull’apprendimento degli alunni. Il clima della classe che l’insegnante può contribuire a creare (fatto di disciplina, attenzione e partecipazione) è, precisamente, fattore fondamentale del processo conoscitivo.
Questa notazione, che varrà la pena riprendere, apre la questione delle pratiche didattiche utilizzate per “tenere” la classe, ma soprattutto della presenza nella classe dell’insegnante come figura di educatore.
È probabile che il TALIS (Teaching and Learning International Survey), il nuovo filone di ricerca dell’OCSE possa offrire in futuro una prospettiva comparata sul piano internazionale delle condizioni di insegnamento e di apprendimento e possa perciò favorire lo scambio di esperienze.