Tutti a scuola: alunni, insegnanti, dirigenti e… sindacati. All’inizio di quest’anno scolastico 2009-10 si sono fatti vivi, come già l’anno scorso, minacciando scioperi già dal primo giorno di scuola.

I tagli di personale rinviati da anni, in primo luogo per iniziativa vincente dei sindacati stessi, e decisi nella Finanziaria 2008 ora incominciano a dispiegare i loro effetti, più incisivi al Sud, più modesti al Nord. I governi, soprattutto dal 1996 in avanti, hanno tentato di chiudere la costosa forbice tra offerta di insegnanti e domanda, generata dal fallimento della programmazione centralistica dell’Amministrazione centralizzata e dalle complicità politiche e sindacali.



Il fatto è che il Ministero della Pubblica istruzione ha funzionato per decenni come Ministero occulto del lavoro intellettuale, che collocava i disoccupati gettati dalle Università sul mercato del lavoro pubblico dipendente, nel quale lo scarto tra domanda e offerta si è allargato. Nel 1971 gli alunni erano circa 10 milioni e gli insegnanti 650.000, nel 2001 gli alunni erano 8 milioni e gli insegnanti erano cresciuti a 800.000.



Ma non è solo di “tagli” che i sindacati della scuola si occupano. Sia direttamente sia attraverso il Consiglio nazionale della Pubblica istruzione – composto a maggioranza da sindacalisti – essi intervengono su tutta la legislazione che riguarda la scuola. Chi abbia seguito nei decenni la sterminata letteratura congressuale dei sindacati della scuola può registrare la preoccupazione costantemente dichiarata di partire dalla difesa delle condizioni retributive e di lavoro dei docenti e del personale tecnico e ausiliario per sollevarsi a obbiettivi riformistici più avanzati. Ciò soprattutto da parte di sindacati “confederali”, che non si limitano a organizzare verticalmente determinate categorie di lavoratori, ma aspirano a rappresentare trasversalmente l’universo del lavoro, pubblico e privato, e persino a suggerire politiche pubbliche “per l’interesse generale del Paese”. È, del resto, un antico postulato quello che fa coincidere gli interessi di categoria dei lavoratori con l’interesse generale del cittadini e del Paese. Vero è che da quando è nata la scuola italiana nel lontano 1859 gli insegnanti si sono organizzati progressivamente in associazioni professionali, che si sono battute per difendere la propria condizione, spesso miserabile – soprattutto se si pensa a quelli della scuola elementare – e insieme per lo sviluppo di una scuola di massa e di qualità nel Paese. A partire dalla fine degli anni ’60 del Novecento, queste associazioni, ricche di sigle e di orientamenti culturali e ideologici diversi, si sono sempre più trasformate in sindacati veri e propri, quali causa ed effetto di una “impiegatizzazione” definitiva del lavoro degli insegnanti. Di qui in avanti è incominciata la deriva conservatrice dei sindacati rispetto alle riforme, da loro costantemente contrastate come minacce. Conservare che cosa? La struttura centralistica del sistema, il carattere pubblico-statale della professione, l’eguaglianza dei ruoli e degli stipendi, il mantenimento della proletarizzazione, la carriera per anzianità, l’unità del comparto insegnanti/bidelli e, decisivo, il ruolo cogestionario del sindacato nelle scuole. In effetti, le RSU hanno capillarizzato il controllo scuola per scuola sulla gestione del personale e sull’uso dei fondi. La loro presenza, sia pure nella forma del potere di veto, condiziona pesantemente la governance delle scuole. Ogni ipotesi di innovazione anche solo parziale dello “stato di cose presente” incontra una dura resistenza. Questa piattaforma conservatrice converge felicemente con quella dell’apparato amministrativo centrale del Ministero dell’istruzione. Non c’è un Atto amministrativo che non passi al vaglio preventivo dei sindacati. Che, del resto, esercitano una grande influenza sulle nomine e sulle carriere degli alti dirigenti. Questo esito conservatore del sindacalismo nasce solo dalla brama di mantenimento e di esercizio sempre più pervasivo del potere dei dirigenti sindacali o ha alle spalle una cultura politica? Anche la cultura, beninteso. Da questo punto di vista i sindacati della scuola sono rimasti l’ultimo baluardo del sindacalismo industriale, dove “l’industria” è il sistema pubblico di istruzione, con il suo milione e passa di addetti, senza contare i precari, che finora il sistema amministrativo ha riprodotto su scala industriale. L’idea-guida è quella dell’eguaglianza, che solo lo Stato centrale può garantire: uguaglianza dei punti di partenza e di arrivo, uguaglianza dei percorsi. Solo l’età fa la differenza. Come si vede, si tratta di un ciclo ideologico, incominciato con il Manifesto del Partito comunista di Marx e concluso nel 1989. Da allora molte cose sono accadute, ma i sindacati-scuola hanno continuato imperterriti sulla vecchia linea. Non è un fenomeno solo italiano: in Europa e negli Stati Uniti la resistenza del sindacalismo scolastico alle riforme è stata ostinata fin dagli anni ’80. Dove c’è stata una politica forte e consapevole delle nuove poste in gioco, essa è riuscita a ridimensionare la potenza conservatrice del sindacato. A volte lo hanno fatto le forze di destra, a volte quelle di sinistra. Il caso inglese è paradigmatico. La Tathcher ha isolato nella società civile e distrutto politicamente il sindacato, il laburista Tony Blair si è ben guardato dal risollevarlo. Negli Usa oggi è Obama che difende le innovazioni contro il sindacalismo degli insegnanti. E in Italia? Destra e sinistra si sono mosse dal 1996 nella speranza di fare riforme con il consenso. Ma del consenso di chi si tratti, questo è il problema. Il consenso dei cittadini o quelle delle categorie sindacalizzate? I cittadini, le famiglie, una piccola percentuale di insegnanti hanno dato con il voto il consenso a un programma di riforme, i sindacati lo negano. La politica deve decidere a chi dare ascolto. “Dare tempo al sindacato?” Ne ha già preso troppo!