Giorgio Israel esprime il proprio punto di vista su questo avvio dell’anno, scolastico e universitario. Fra proteste di docenti precari e interessi particolari la via d’uscita dalla crisi educativa si fa sempre più ardua, ma qualche speranza c’è
Lei era uno dei firmatari del manifesto di CL sull’Emergenza Educativa. Più volte si è dichiarato preoccupato del clima culturale italiano facendo riferimento spesso anche ai vari “autunni caldi” come anche quest’ultimo minaccia di essere. Che giudizio dà della situazione odierna?
In linea generale direi che forse qualcosa è migliorato. C’è una certa consapevolezza della crisi in atto nel settore educativo e nell’educazione tout court. C’è di più di quanto non ci fosse qualche anno fa. Però la situazione rimane estremamente rischiosa e difficile, i problemi sono immensi e si ha la sensazione che ci vorrebbe una presa di coscienza generale e una volontà di venirne fuori ancora molto di là da venire. Il motivo risiede nell’eccessiva frammentazione di interessi particolari. Noi non abbiamo idea dell’immensa mole di interessi specifici e miopi che giocano un ruolo di resistenza ad ogni cambiamento, anche culturale.
Quando è iniziata questa pericolosa deriva sociale nel nostro Paese?
Il problema è sorto intorno agli anni ’70, quando si è deciso di trasformare la scuola in un sistema sindacalizzato in cui l’insegnante non era più un educatore culturale, ma era un solo impiegato statale. Questa logica ha trasformato la scuola in un enorme ammortizzatore sociale. La scuola italiana oggi esiste ed è concepita come luogo per reclutare gente. Se nessuno riuscirà in qualche modo a imporre una linea differente non si avranno molte speranze di venire fuori.
Lo stesso “autunno caldo” che ci sarà sorgerà per difendere questa concezione sbagliata.
Quindi manca una strada comune sebbene la coscienza di una situazione grave e di un’emergenza educativa sia collettiva?
Soprattutto manca una strada comune per uscirne. Questo è il problema culturale. Non si vuole fare un’analisi degli errori passati facendo un autentico dibattito, ma si mettono in atto solo scontri ideologici tra posizioni predeterminate. C’è chi difende a tutti i costi quanto fatto finora senza una volontà di capire fino in fondo quello che davvero c’è in gioco nel futuro della scuola.
Come giudica l’avvio di questo anno scolastico sia per quanto riguarda licei e università sia per ciò che concerne l’operato del Ministero della Pubblica Istruzione?
Per avere il reale polso dell’università dovrò aspettare ancora un po’, quando sarà a pieno regime accademico. Siamo ancora in settembre. Posso però dire che lo riconosco come il luogo nel quale forse la coscienza di cui parlavo prima è più forte. In università si respira un po’ più la voglia di cambiamento. Pensiamo al suo sistema di reclutamento che oramai è bloccato da tempi immemorabili. Certo, anche qui si assiste a battaglie ideologiche come quella per l’abolizione del 3+2.
Per la scuola penso che siano stati presi dal Ministero una serie di provvedimenti parecchi dei quali vanno in una direzione giusta. Di sicuro sia per la scuola sia per l’università nessun programma risponde a un disegno complessivo di riforma globale. Né per il momento si può fare. Noi veniamo da 35 anni di riforme smozzicate che hanno costruito una situazione caotica. Il che vuol dire che la scuola e l’università sono state sottoposte a uno stress continuo.
Anche se, a quanto si vede, la voglia di realizzare una riforma globale non manca
Questo è un Paese dove per fare una cosa, anche piccola, ci vuole un tempo enorme, contrattazioni infinite. Nessuno può pensare seriamente di mettere le mani su una riforma globale. Quello che si deve fare consiste invece nell’identificare alcuni punti nodali su cui tappare un po’di falle. È l’unica cosa. In questo senso una serie di provvedimenti del ministro Gelmini vanno in tale direzione. C’è una via di mezzo tra fare riforme globali in modo decisionista e quello che invece oggi si è costretti a ottenere. Perché in barba a quanto si blatera sullo sterminato potere del Ministero, esistono migliaia di filtri che sono gli interessi particolari. Se non si riesce a far passare l’idea che esiste un interesse generale a cui dobbiamo piegarci ce la vedremo davvero brutta.
Veniamo a un versante più tecnico e di sua maggior competenza: in che termini cambierà la formazione dei docenti?
La formazione dei docenti non cambierà in modo radicale. Quello che abbiamo fatto è semplicemente correggere una serie di punti importanti, soprattutto sul piano dei contenuti. Abbiamo pensato a percorsi di laurea che siano professionalizzanti. Un’altra preoccupazione era che quella del docente non fosse un’esperienza solo teorica, ma anche di tirocinio. L’abbiamo voluto chiamare “tirocinio formativo attivo” proprio per dire che il futuro insegnante andrà a scuola a imparare a insegnare, proprio come si va “a bottega”. Questo risultato si costruisce nel rapporto tra scuola e università.
Ovvero?
Il discorso per il quale l’università non capisce niente di insegnamento e formazione è pericolosissimo perché apre una conflittualità fra scuole e atenei di cui non abbiamo affatto bisogno, e oltretutto non va dimenticato che alla fin fine un insegnante è un laureato: esattamente come un medico o un avvocato. Quindi il docente si forma all’università, poi certamente bisogna aggiungere qualcosa alla sua formazione che si costruisca nel rapporto con la scuola. Pensare però che quest’ultima possa fare da sola significa regredire a una condizione artigianale dell’insegnamento.
Lei parlava prima anche di “contenuto” nella formazione. Che cosa intende dire?
In questi anni ci si è sbilanciati troppo sul fronte della metodologia didattico pedagogica. Presso le SSIS, almeno in alcuni settori del Paese, si ripetevano le lezioni universitarie o si faceva pura pedagogia. Questo non è accettabile. Abbiamo definito dei percorsi formativi molto precisi che equilibrano lasciando giusto spazio alla componente psicopedagogica, ma anche ai contenuti scientifici. Un individuo costruisce la capacità di sapere insegnare anche sulle proprie conoscenze, non solo sui metodi. Non si può dunque dire che sia stata penalizzata la componente pedagogica, ma si può dire che si è rafforzata quella disciplinare.
Ha suscitato molti dibattiti l’aver “scorporato” il problema del reclutamento dei docenti da quello della formazione. Il primo è un aspetto per certi versi ancora “in cantiere”. In che modo il lavoro operato sulla formazione può contribuire alla sua risoluzione, anche alla luce del grande numero dei precari?
Chi ha espresso tali perplessità pecca d’ingenuità. I problemi complicati non si risolvono se non si dividono in problemi semplici, lo dice la matematica. La questione del reclutamento è diversa da quella della formazione: la prima è di natura pratica l’ultima teorica. Il precariato poi è un problema contingente di carattere politico. Noi abbiamo offerto un modello che può andare a regime per molto tempo. Se lo avessimo costruito in funzione della contingenza avremmo fatto un pastrocchio. Ecco qual è il punto. Il problema del precariato si risolverà nel tempo facendo il giusto affidamento su una programmazione numerica che copra a mano a mano i posti disponibili. Questo ovviamente purché tutti, istituzioni e istituti, facciano “il proprio dovere”.
Quanto alle nuove forme di reclutamento l’obiettivo è quello di creare un meccanismo che impedisca il sovrannumero di offerte rispetto alla reale domanda. Per quanto finora è stato fatto direi che porre un limite alla logica della scuola come ammortizzatore sociale sia un buon inizio.