Sebbene la circolare parlasse chiaro e arrivasse direttamente dal ministero della pubblica istruzione, decine di dirigenti scolastici, imitati da altrettante decine di insegnanti pubblici, hanno fatto spallucce ignorando o, peggio, contestando la decisione. Niente minuto di silenzio. Nessuna commemorazione per i sei soldati italiani morti in un attentato in Afghanistan lo scorso 17 settembre. In alcuni casi anzi la decisione del ministro ha suscitato violente polemiche dai toni antimilitaristi e pacifisti. Come se il nostro contingente si trovasse in Afghanistan per occupare il paese e non per garantire la pace. Ne abbiamo parlato con il senatore Giuseppe Valditara, Segretario della Commissione Istruzione pubblica, beni culturali del Senato.



 

Senatore Valditara, decine di scuole in tutta Italia si sono rifiutate di celebrare il minuto di silenzio per i nostri militari morti in Afghanistan. Come giudica un tale atteggiamento?

“Pietà l’è morta” diceva il poeta. Questo è il mio commento. Perché quando addirittura si arriva a fare polemiche e a negare un minuto di silenzio, tra l’altro anche con argomentazioni molto pretestuose e in alcuni casi volgari, di fronte al dramma di questi giovani morti in Afghanistan mi sembra che manchino davvero i requisiti minimi per potere svolgere la professione di insegnante.



Personalmente, sull’onda di questa polemica, ho presentato una proposta. Dal momento che le scuole vengono intitolate su invito delle direzioni scolastiche agli uffici scolastici regionali facciamo sì che il ministro abbia maggior libertà di scelta nelle titolazioni. Di modo che eroi che hanno dato la vita per la libertà e la democrazia possano davvero essere commemorati a livello nazionale. Così si mostrerebbe efficacemente agli studenti, ai ragazzi e anche alla collettività che la posta in gioco consiste nel difendere valori fondamentali per la nostra stessa esistenza.

Il ministro Gelmini ha annunciato che prenderà provvedimenti, si sa già quali saranno?



Su questo caso specifico non lo so. Ma il problema è generale. Abbiamo assistito in questi mesi ad insegnanti e dirigenti scolastici che pubblicamente dichiaravano di non voler applicare le norme emanate dallo Stato. Pensiamo a quanto accaduto con il maestro unico o prevalente. Alcune scuole hanno apertamente dichiarato «noi non applicheremo questo modulo», e non solo: alcuni insegnanti a lezione hanno più volte insultato di fronte ai propri alunni il presidente del Consiglio, il ministro e numerose altre figure istituzionali. Penso che sia giunto il momento di fare un po’ di scelte politiche sul comportamento dei docenti.

Ovvero?

Occorre intervenire con sanzioni precise, dare un potere agli organi della burocrazia ministeriale di sanzionare direttamente chi viola le regole del comportamento civile. Un insegnante che predica il non rispetto delle istituzioni dev’essere sanzionato a livelli di stipendio e nei casi più gravi licenziato. Non possiamo più accettare che nelle scuole si insegni l’illegalità, il dileggio, la calunnia, l’insulto e quant’altro. Che è cosa assai diversa dalla polemica politica, dalla discussione politica. Ognuno è libero di professare un credo politico, ci mancherebbe, anche in pubblico. Ma non è davvero tollerabile che si insegni il disprezzo per l’avversario politico.

 

Crede che questa particolare protesta, quella di non rispettare il minuto di silenzio, sia legata alle polemiche relative ai tagli effettuati dal ministero dell’Istruzione o sarebbe comunque sorta?

 

No, questa è puramente politica ideologica il ministro non c’entra un granché. Credo che se si fosse trattato di altri ministri o altri governi ci sarebbero stati comunque insegnanti o altri dirigenti scolastici a protestare. Si tratta di persone che evidentemente vivono la scuola in modo molto ideologizzato. Questo specifico episodio infatti è frutto di un atteggiamento culturale. L’obiettivo non è il ministro o il governo, se non di riflesso. Tale impostazione ideologica crea spessissimo situazioni inaccettabili che travalicano il confronto politico. È pura insensibilità nei confronti di quei valori che fondano la nostra Repubblica.

 

Sorge però un problema: si può obbligare qualcuno a fare un minuto di silenzio? Non si rischia uno Stato autoritario?

 

Si tratta di trasmettere dei valori di riferimento, non si tratta di ubbidire a un ordine. Trovo in verità molto grave non tanto il fatto che qualcuno non abbia ascoltato l’invito del ministro a celebrare il minuto di silenzio, ma che abbia pubblicizzato la sua protesta e polemizzato apertamente su questo punto.

Un insegnante può anche rifiutarsi di celebrare un minuto di silenzio alla memoria di qualcuno. Personalmente non capirei comunque il motivo, mi sembra qualcosa di disumano non compiangere i morti, ma comunque non sono faccende che mi riguardino e tanto meno che riguardino lo Stato. Però utilizzare la propria coscienza per organizzare una polemica e negare la bontà di certi valori è un comportamento molto grave da parte di impiegati dello Stato.

 

Si può immaginare una simile protesta in un’altra nazione?

 

Non credo proprio. Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti d’America, che hanno un’eccezionale tradizione democratica. Negli Stati a governo democratico, dove governano gli “amici” di Obama, gli insegnanti sono obbligati a cantare in classe l’inno nazionale insieme agli studenti, a onorare la bandiera e, all’inizio delle lezioni, spesso e volentieri si esegue l’alzabandiera. Nessuno trova disdicevole questo tipo di atteggiamento, anzi. Figuriamoci se queste procedure si svolgessero da noi.

 

Qual è il senso del minuto di silenzio come strumento educativo?

 

Innanzitutto la solidarietà fra cittadini  è un valore che va insegnato. Ovviamente comprendo anche i cittadini immigrati che questa solidarietà devono riceverla e anche darla a loro volta. Una solidarietà che va dimostrata nei confronti di chiunque lavori per la crescita della nostra nazione. In secondo luogo sarebbe stato un gesto di riflessione, di domanda sul senso della nostra missione in Afghanistan. Occorre che i giovani comprendano che non siamo andati a occupare uno stato e tantomeno siamo lì per sfruttarlo. Il senso della missione e della morte dei nostri soldati consiste nell’evitare che l’Afghanistan torni ad essere una piattaforma di lancio di imprese terroristiche, divenga un centro di addestramento per i  terroristi che fino a pochi anni, ricordiamoci l’11 settembre, fa potevano agire indisturbati disponendo inoltre di risorse illimitate, quelle provenienti dal narcotraffico. Non solo dunque noi andiamo là per appoggiare un governo democraticamente eletto dagli afghani, ma soprattutto per difendere la nostra libertà e la nostra democrazia. È grave che a scuola si faccia di tutto per impedire questa consapevolezza.