A volte, i grandi cambiamenti possono partire anche da “una paroletta”. Una paroletta, secondo Dante, salvò dall’inferno Bonconte da Montefeltro (Purg. V, 85-129). Una paroletta può iniziare a configurare una svolta nella concezione del ruolo degli insegnanti e rappresentare un deciso passo avanti lungo la strada del merito.
Dall’articolo 395 del Testo unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione all’ultimo contratto collettivo nazionale (che, come noto, ha forza di legge su alcune materie), la pietra dello scandalo, a mio parere, è nel termine “funzione”: «la funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità»; «la funzione docente realizza il processo di insegnamento/apprendimento volto a promuovere lo sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli alunni, sulla base delle finalità e degli obiettivi previsti dagli ordinamenti scolastici definiti per i vari ordini e gradi dell’istruzione». Funzione, dunque, non professione. Quasi che il mestiere dell’insegnare consista in una mansione impiegatizia (sostanzialmente esecutiva e uniforme) e non sia invece connotato da tutte le caratteristiche proprie di una professione: libertà, responsabilità, deontologia, autonomia della professione, diritti e doveri verso le persone e verso la società. Quasi che lo «sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli alunni» sia il frutto automatico di procedure standardizzate (chissà, magari c’è un ISO apposta, spersa in qualche meandro della normativa europea) e non dall’incontro irripetibile tra “allievo e maestro”.
Cambiare quella paroletta, riconoscere finalmente la professionalità degli insegnanti senza affidarsi a intorcimenti linguistici e sintattici, senza giocare (sporco) sulla tensione tra una definizione normativa e ciò che l’insegnante è (o dovrebbe essere) penso possa essere un obiettivo a portata di mano. Con tutte le conseguenze del caso: dalla conquista di un’area contrattuale autonoma, alla realizzazione piena dei principi di libertà di insegnamento, a una retribuzione che ritorni alla premialità. Parlare di professione significherebbe chiudere un altro capitolo aperto dall’ideologia egualitarista sessantottina che pretese a partire dal 1974 la cancellazione del “concorso per merito distinto” e delle note di qualifica necessarie per accelerare o ritardare l’automatismo perverso degli scatti biennali, senza che una nuova premialità sostituisse istituti magari obsoleti. Non si tratta di tornare a un improbabile passato, valutando gli insegnanti solo sulle proprie conoscenze disciplinari e non sulla capacità di trasmettere queste conoscenze e di “fare segno”. Ma di cercare sistemi moderni ed efficaci. L’orologio sta, infatti, correndo. La legge 133, all’articolo 64, prevede che «una quota parte delle economie di spesa» realizzate attraverso gli interventi di razionalizzazione delle spese dell’istruzione «è destinata, nella misura del 30 per cento, ad incrementare le risorse contrattuali stanziate per le iniziative dirette alla valorizzazione ed allo sviluppo professionale della carriera del personale della Scuola a decorrere dall’anno 2010, con riferimento ai risparmi conseguiti per ciascun anno scolastico». Il rischio che, in assenza non solo di criteri precisi, ma di un inquadramento “filosofico” che muti la funzione in professione, le risorse vengano risucchiate in una redistribuzione sindacalburocratica, è effettivo. Occorre sventarlo. A partite da una paroletta.