Settembre, andiamo, è tempo di studiare. Anche quest’anno, dopo un’estate apparentemente torrida solo dal punto di vista meteorologico – ma attraversata da fulmini a dir poco letali quali la questione degli insegnanti di religione e l’introduzione dei dialetti locali nel curriculum- anche quest’anno, si diceva, si spalancano i portoni delle scuole d’Italia.
Una scuola scossa da turbolenze generate dall’apparato politico-amministrativo, turbolenze che producono reazioni e stati di incertezza e perplessità in docenti e famiglie. I media strillano con titoloni ad effetto le novità più o meno sconcertanti, creando fazioni di guelfi e ghibellini pronti a difendere la propria opinione a costo di farsi trasportare da un vento di restaurazione e/o di riformismo francamente inquietante, in nome del nuovo che copre gli irrisolti dell’ex nuovo che sa di passato prossimo.
Ma la scuola non può e non deve iniziare il suo compito a partire da una crisi di identità, indotta più che reale. Ognuno ha le proprie responsabilità e il proprio ruolo nell’opera di disgregazione o di sostegno dell’edificio scuola: politici e amministrazione centrale, docenti e dirigenti, famiglie e alunni. Si tenta qui di stilare un provvisorio indice ragionato delle questioni aperte che investono l’apparato politico-amministrativo.
Qual è lo stato dell’autonomia scolastica in Italia? Il pendolo oscilla tra un centralismo che avviluppa la scuola con lacci e lacciuoli e forze centrifughe che richiamano alla mente immagini di satelliti che si sganciano dall’orbita per vagare senza meta e con poco carburante. Tali perpetue oscillazioni indeboliscono progressivamente il sistema dell’autonomia, legalmente assicurata da anni, di fatto soffocata o travisata. Il termine autonomia oggi in Italia assume significati polisemici, se non contraddittori. Ognuno vorrebbe che nella scuola prendesse forma la propria idea di autonomia. Oltre il colore dei vari Ministri e l’avvicendarsi di Direttori generali del Ministero, qualcuno può peccare di onestà e realismo e dichiarare quali sono le condizioni che attualmente possono garantire l’autonomia delle scuole e in quale grado? Quale “modello” di scuola autonoma si vuole imitare e – se no – come si può realmente disegnare un modello tutto nostrano? Modello che può non essere condiviso ma che può porre le basi per un dibattito su condizioni di fattibilità e non su teorie. Chi scrive è fautrice dell’autonomia, ma ha assistito troppe volte all’“esegesi’ del testo del DPR 275/99 e raramente ad una proposta operativa ed applicabile. Leggi, leggine, note, circolari hanno spesso inquinato la comprensione del testo anziché dare chiavi di interpretazione oggettive del decreto. In fondo il DPR 275 non è un testo letterario, è un testo legislativo!
Una seconda questione su cui si è giocato al tiro alla fune è la pratica della valutazione nella scuola e della scuola. La valutazione degli apprendimenti degli alunni è stata sottoposta ad uno stillicidio di cambiamenti poche volte rivoluzionari, molte volte minimi e mascherati di innovazione. E la tempistica con cui l’amministrazione centrale ha emanato le ultime norme al riguardo ha costretto i docenti a trasformare l’atto valutativo in un rituale burocratico e poco formativo. Si deve decidere, colà dove si puote, innanzitutto se la valutazione debba essere fatta a partire da un curricolo centrato sulle conoscenze o sulle competenze: le modalità con cui le valutazioni vengono espresse sono una convenzione che – una volta compresa e condivisa- risulta abbastanza secondaria. Aver considerato la sostituzione dei giudizi con voti decimali un cambiamento epocale e dannoso per la scuola lascia il retrogusto amaro di un’operazione di chi – di fronte ad un buco nel pavimento – mistifica il problema coprendo il buco con uno splendido vaso di coccio. La scuola necessita di ridare un significato formativo al processo di valutazione, grazie ad una presa di coscienza dei docenti ma anche grazie ad una strumentazione adeguata che consenta alle scuole di assolvere seriamente il compito valutativo. È una falsa libertà quella che è stata concessa alle scuole dalla circolare n. 51 del 20/5/09 recante come oggetto l’esame di Stato conclusivo del primo ciclo di istruzione; la circolare così recita «In attesa della definizione, con decreto ministeriale, del modello di certificazione delle competenze di cui all’art. 10 del DPR 275/1999, le istituzioni scolastiche potranno procedere alla sperimentazione di propri modelli sulla base delle esperienze condotte negli anni precedenti». Un passo verso un cambiamento positivo è stato compiuto dall’INValSI che ha prodotto e somministrato prove per la valutazione degli apprendimenti degli alunni. Quest’anno, rispetto alle prove per la 2^ e 5^ classe della primaria, l’adesione è stata – sia pur massiccia – lasciata alla libera scelta degli istituti scolastici. Si auspica che – come per la quarta prova dell’esame di Stato conclusivo del 1° ciclo – anche le rilevazioni per la primaria siano generalizzate a tutto il territorio nazionale.
Un terzo nodo, che deve essere sciolto in tempi brevi ma con estrema serietà, è rappresentato dalla formazione iniziale dei docenti. La bozza Israel è stata ampiamente commentata e chiosata. Quello che sembra importante rimarcare è che la formazione dei docenti non può essere impostata sulla falsariga di una formazione accademica (anche questa ha il suo valore), non può replicare una pista universitaria. I docenti sono dei professionisti e, come per ogni professione, occorre un tirocinio, un bagno di realtà nella situazione in cui si andrà ad operare. Vale per tutte le professioni: i poliziotti frequentano la scuola di polizia, ma quando si trovano sulle strade trovano vantaggio osservando i colleghi più ‘navigati’ operare in situazioni reali. Chi illustra ad un docente come rapportarsi ad un alunno con delle difficoltà, come gestire un colloquio costruttivo con le famiglie, come organizzare ambienti di apprendimento vantaggiosi per i singoli alunni? O i docenti hanno modo di fare “esperienza” guidata nella palestra che è la scuola, oppure agiranno per tentativi ed errori quando avranno la responsabilità di una classe. Senza contare il senso di sconforto che può nascere in un docente – magari laureato con lode e vocazionalmente spinto all’insegnamento – quando si accorge di non saper svolgere il lavoro che credeva di amare. Un progetto di formazione iniziale dei docenti deve vedere la scuola in atto protagonista, maestra per i propri apprendisti. Senza sollevare l’obiezione che la scuola italiana è allo sbando o demotivata a svolgere il suo compito. La scuola italiana è ricca di esperienze significative e di eccellenze. È un peccato che si spendano tante energie per stigmatizzare le carenze del sistema scolastico e pochi si prendano la briga di documentare e “modellizzare” esperienze emblematiche riproducibili.
Se le questioni sopra citate sono state ampiamente e diffusamente analizzate su media e riviste specializzate, diversa sorte tocca ad un altro nodo che abita la scuola. Non sarebbe la prima volta che nella storia scolastica l’istituto della sperimentazione genera uno status quo che si trasforma in modo silente in norma non scritta. Si ricorda che le sperimentazioni ex art. 3, fiorite negli anni 80 – 90 nella scuola secondaria superiore in attesa di una riforma, sono diventare riforme di fatto e non sono state sottoposte ad una seria valutazione e verifica. Ora il primo ciclo del sistema scolastico si trova a dover fare i conti con delle “Indicazioni per il curricolo” il cui tempo di sperimentazione sta per scadere. Non è dato sapere quali e quante scuole abbiano posto in essere la sperimentazione delle Indicazioni né quale iter “sperimentale” sia stato seguito dalle scuole stesse. Ad oggi le scuole, vivendo una stagione di posticcia autonomia, possono attingere alle Indicazioni senza delle linee guida e dei parametri su cui misurare la bontà delle stesse, ai fini di creare una scuola che sviluppi e sostenga l’apprendimento. E ciò costituisce già un limite ad un progetto sperimentale. Ma ciò che più impensierisce è il tacito accordo – che sembra trasversale – a far scadere i termini della sperimentazione senza chiedere il conto della sua portata in relazione alla qualità della scuola. Si può obiettare che questa non è la questione vitale che scuote la scuola. Nulla e tutto è essenziale. Ma anche questo elemento di provvisorietà mina l’equilibrio e la stabilità di una scuola che, almeno per la primaria, aveva conquistato nel tempo una propria fisionomia ed una propria efficacia formativa e culturale, efficacia suffragata dagli esiti positivi mostrati in rilevazioni internazionali. Si rischia di mantenere una scuola “provvisoria” nella quale seguire il nord o il sud della bussola sia indifferente. Se ciò è agito in nome dell’autonomia non porta invero alla costruzione di un “nuovo” stabile e codificato attraverso una seria riflessione. L’innovazione in campo scolastico non accade solo perché si opera un cambiamento: questo deve essere sottoposto a critica e valutazione. Qualcuno si prenda la briga di “guardare” dentro la scuola militante per scoprire quali vantaggi ha tratto e trae dalle novità ad essa imposte e/o proposte. Non con dibattiti fumosi: con dati concreti alla mano. Si attendono notizie.